È trascorso un anno dal ritorno a Kabul dei talebani, da quel 15 agosto 2021 in cui iniziò a sventolare sulla città la bandiera dell’Emirato islamico. Un giorno impresso nella memoria della comunità internazionale soprattutto per le immagini della disperazione degli afghani nei loro tentativi di fuggire da quello che non poteva essere altro che un ritorno di un regime teocratico immerso in un profondo oscurantismo.
Non solo, ma anche un giorno che ha segnato i tanti inquietanti interrogativi su quella guerra iniziata circa vent’anni fa, all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle a New York, sul ruolo di Washington e sul coinvolgimento della NATO, sui risultati ottenuti nel Paese e sulla velocità, all’annuncio del ritiro dell’Alleanza atlantica e soprattutto degli Stati Uniti, con la quale i talebani hanno scardinato le Istituzioni governative presenti e messo in fuga il cosiddetto esercito afghano.
Tutti interrogativi rimasti in sospeso, ma già annunciati nell’accordo di pace bilaterale di Doha firmato dall’Amministrazione Trump e dai talebani nel febbraio 2020, un accordo insensibile al futuro della popolazione afghana, alla tenuta delle Istituzioni e, soprattutto, al complesso percorso per raggiungere la pace. Non solo, ma un accordo che prevedeva il ritiro della NATO entro il primo maggio 2021, impegno che il futuro Presidente Biden, con un ritardo di pochi mesi, ha rispettato.
A un anno da quel ritiro e malgrado le vaghe promesse, non mantenute, dai Talebani, la situazione dell’Afghanistan, Paese martoriato da più di quarant’anni di guerre, è a dir poco catastrofica. Da un punto di vista politico, il nuovo potere a Kabul pratica una politica repressiva nei confronti della popolazione, annullando libertà e diritti, applicando integralmente la sharia e cancellando la presenza e la vita delle donne. Di esse si è giunti a parlare di apartheid di genere, di morte al rallentatore, anche se ci giungono echi del loro coraggio, delle loro proteste e delle loro lotte.
Da un punto di vista economico la situazione ha raggiunto livelli preoccupanti: l’economia è in caduta libera, la povertà colpisce più dei tre quarti dell’intera popolazione, più di dieci milioni di bambini soffrono la fame, la disoccupazione è dilagante e i prezzi dei generi alimentari sono saliti alle stelle. Sotto lo sguardo ormai distante dell’Occidente e della comunità internazionale, sguardo ormai rivolto in particolare alla guerra in Ucraina, l’Afghanistan rischia l’abbandono e l’oblio. Gli aiuti allo sviluppo della comunità internazionale si sono sensibilmente ridotti e non c’è più risposta adeguata all’emergenza umanitaria.
Di fronte a questa situazione si fa tuttavia strada un appello lanciato da numerose ONG affinché vengano sbloccati e restituiti quei fondi afghani, pari a circa sette miliardi di dollari, ancora depositati e detenuti in banche statunitensi dalla presa di potere da parte dei talebani nell’agosto scorso. Un appello per sostenere la popolazione, per alleviare le sue sofferenze e ridare fiato all’economia, ma un appello che non nasconde il grande quesito di come interloquire, a questo fine, con gli stessi talebani e come evitare che queste risorse non vengano deviate nelle loro mani.