In Scozia è andata bene. È andata bene alla Gran Bretagna, rimasta dopo qualche brivido ancora Regno Unito; l’ha scampata anche l’Unione Europea, già abbastanza disunita in questi tempi di crisi e, probabilmente, finirà bene anche per la Scozia che guadagnerà maggiore autonomia dopo aver rischiato di smarrirsi in una “terra di nessuno”. Tutto è bene quello che finisce bene, a patto che adesso nessuno faccia finta di niente. Gli indipendentisti scozzesi dovranno per lunghi tempi mettersi il cuore in pace e capire che il realismo politico ed economico impone compromessi. Una lezione impartita anche al governo di Londra e alla sua storica arroganza verso tutto quello che non è Regno Unito, con qualche eccezione per gli USA; e un avvertimento, soprattutto per l’Unione Europea reduce da una stagione, ormai superata, favorevole alla costruzione di un’Europa delle regioni e oggi soffocata dal prevalere di una involuzione intergovernativa che la rende prigioniera degli Stati – nazione che la compongono. E poiché l’Europa è anche nostra, e per noi viene prima del Regno Unito, vale la pena approfittare di questa occasione per cogliere le lezioni che ci vengono dal recente referendum in Scozia. La prima lezione è l’esercizio di democrazia: la partecipazione al referendum è stata doppia rispetto a quella degli europei alle recenti elezioni per il Parlamento di Strasburgo. Certo si tratta di due consultazioni di diversa natura, ma è altrettanto certo che quando in ballo vi è qualcosa di immediatamente concreto, i cittadini si mobilitano e torna la passione politica, quella che oggi tanto manca nel confronto europeo. Un’altra lezione ci arriva dalla voglia degli Scozzesi di uscire dalla Gran Bretagna, ma di restare o rientrare nell’UE: un segnale di disagio verso uno Stato – isola accentratore e la prospettiva di approdare in uno spazio politico più ampio e necessariamente più rispettoso delle autonomie locali. Bene ha fatto il Presidente del Parlamento europeo a prospettare l’opportunità che in futuro i Trattati UE prevedano dinamiche di questa natura, aprendosi a nuovi possibili assetti istituzionali. E così arriviamo alla lezione centrale per l’UE imbalsamata di oggi. Nata oltre sessant’anni fa, in un contesto radicalmente diverso dall’attuale, la prima Comunità europea si era data Trattati che associavano sei Stati nazionali relativamente omogenei e compatti al loro interno. Oggi gli Stati dell’UE sono ventotto, con storie e configurazioni nazionali diverse e logorati al loro interno da spinte verso la frammentazione, aggravate dalla lunga e dura crisi economica in corso. Non stupisce che ne nascano rivendicazioni di autonomia, soprattutto fiscale, uno dei temi centrali non solo nei singoli Stati – come nel Regno Unito, in Spagna, ma anche in Italia – ma decisivo per il futuro dell’Unione Europea. Chi è consapevole che cemento del vivere insieme è la solidarietà e la condivisione, sa che uno zoccolo duro della solidarietà è il fisco con la sua funzione redistributiva. Si tratta di uno zoccolo che si va indebolendo nello Stato nazionale esposto ai venti della globalizzazione (ex – Fiat docet), come ci ha ricordato il recente G20 in Australia, e che stenta a progredire in un’Unione Europea intergovernativa poco coesa. E qui il cerchio si chiude: la lezione della Scozia non è solo quella di un popolo fiero e stanco della dominazione di Londra, ma molto di più un avvertimento a tutti, Italia compresa con i suoi residui leghisti che poco hanno da spartire con le rivendicazioni scozzesi. È anche un ulteriore segnale che è ora di mettere mano a un’altra Europa, insieme più ambiziosa e più rispettosa dei suoi molti popoli, capace di tradurre il valore della solidarietà anche promuovendo una progressiva fiscalità europea. Quale nome dare a questa Europa di domani? Possono aiutare le parole di una canzone: e tu chiamala, se vuoi, Unione politica e federale.