Cure dimagranti per i Parlamenti italiano ed europeo

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Se puಠconsolare i molti cultori nostrani dell’antipolitica, particolarmente colpiti dai costi delle nostre Assemblee parlamentari, puಠforse essere di conforto quanto accade contemporaneamente nel Parlamento italiano e in quello europeo, entrambi alle prese con una cura dimagrante per le rispettive assemblee parlamentari. Il voto bipartisan, contraria soltanto Forza Italia, con il quale la commissione Affari costituzionali della Camera ha deliberato la riduzione dei deputati dai 630 attuali a 512 rappresenta un primo passo su una strada ancora lunga e accidentata, ma un segnale sicuramente positivo da un ceto politico fino ad oggi restio ad ogni forma di auto-riduzione.
Quasi in contemporanea, il Parlamento europeo ha affrontato un problema analogo proponendo una nuova ripartizione dei seggi tra i 27 Paesi dell’UE, riconducendo il numero complessivo dei parlamentari europei dagli attuali 785 ai 750 per le prossime elezioni europee del 2009. Anche qui apparentemente una riduzione, ma in realtà   un aumento rispetto ai 736 seggi previsti dal Trattato di Nizza. E questo perchà© anche in Europa il problema non è di facile soluzione, anzi.
L’Unione europea è una realtà   complessa fatta di Paesi grandi e di Paesi piccoli e piccolissimi ma dotati anch’essi di una piena sovranità   da salvaguardare. Per farlo, non basta il pallottoliere ma è necessaria una valutazione politica che non faccia sentire i piccoli Paesi preda dei grandi.
Per dare a questo complicato rebus una soluzione, peraltro provvisoria e praticamente già   destinata a essere rivista nella prossima legislatura entro il 2014, il Parlamento europeo propone al Consiglio europeo di fissare il numero massimo dei seggi a 750 e distribuirli con un criterio di «proporzionalità   degressiva», a partire dal tetto massimo per Paese di 96 seggi attribuiti alla «grande» Germania fino ai 6 seggi attribuiti ai piccoli come Estonia, Cipro, Lussemburgo e Malta.
Se la decisione fosse stata affidata a un impietoso calcolo proporzionale sulla base delle rispettive popolazioni è chiaro che questi ultimi Paesi avrebbero portato a casa molti meno seggi, ma avrebbero sentito minacciata la loro sovranità   e alimentato il sospetto di essere sovrastati dai Paesi più grandi.
Dentro questo quadro complesso e per molti versi discutibile si inserisce un’ulteriore complicazione che riguarda in particolare l’Italia. L’aumento dei seggi dai 736 previsti ai 750 proposti ha comportato aggiustamenti che non hanno fatto tutti felici e in particolare hanno irritato l’Italia, anche se a perderci di più è stata la Germania che ci ha rimesso 3 seggi, con l’Italia ferma a 72 mentre i Paesi tradizionalmente suoi «pari grado», Francia e Regno Unito, guadagnavano rispettivamente due seggi la prima e uno la seconda; ben quattro la Spagna.
La nuova graduatoria parlamentare è stata vissuta dall’Italia come un declassamento dopo decenni di sostanziale parità   con Germania (fino all’indomani della riunificazione), Francia e Regno Unito, i Paesi che apparivano fino ad oggi come una sorta di «quadrilatero europeo».
Ma appunto «apparivano» soltanto, senza essere davvero considerati nà© politicamente nà© economicamente alla stessa stregua nà© con lo stesso rispetto. A dare manforte a una verità   scomoda ci si è messa la demografia calante del nostro Paese e la somma di tutti questi fattori ha dato un risultato un po’ deprimente. E a poco è valsa la critica italiana a una contabilità   elettorale che nel Parlamento europeo si fonda da sempre sulla popolazione nazionale residente nel Paese piuttosto che sui «propri cittadini», compresi cioè quelli che risiedono in un altro Stato membro: calcolo quest’ultimo che avrebbe potuto avvantaggiare l’Italia grazie al consistente numero di nostri «immigrati» negli altri Paesi dell’UE. Argomentazione comprensibile ma non priva di contraddizioni: davvero quei nostri connazionali non hanno cittadinanza nei Paesi dove risiedono e dove tra l’altro possono votare per candidati locali alle elezioni europee, rafforzando così avanzate dinamiche di integrazione e la prospettiva di un Parlamento veramente europeo? Senza contare che comunque entrambi i calcoli, fondati sul criterio della nazionalità  , tengono conto dei residenti extracomunitari solo nel computo dei seggi senza perಠconsentirne la partecipazione democratica alle vicende europee. E pensare che il loro numero è oggi superiore alla popolazione degli otto Paesi più piccoli dell’UE.
Ma dev’essere un destino ovunque, e non solo in Italia, che ogni tentativo di riforma elettorale sia destinato a fare «vittime», vere o presunte che siano.
Alla fine, tuttavia, una cosa conta su tutte: che di queste riforme non sia vittima la democrazia che in Italia, ma anche in Europa, già   non sembra godere di una gran buona salute.

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