Confini d’Europa: ritorni pericolosi

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Con il 4 novembre scorso l’Italia è entrata nell’anno che la porterà a ricordare il centenario della fine della Prima guerra mondiale.

Già sono stati evocati luoghi ed eventi della Grande guerra nel corso del 1917, a cominciare dalla tragedia di Caporetto (650 mila tra morti, feriti, prigionieri e sbandati) fino alle responsabilità degli Alti Comandi di allora.

Altre narrazioni sentiremo l’anno prossimo per ricordare la terza battaglia del Piave, quella che avrebbe preparato la conclusione della “Guerra europea” il 4 novembre 1918 a Vittorio Veneto. E’ probabile che dopo il ricordo delle umiliazioni di Caporetto, gli eventi del 1918 diano fiato alle trombe della retorica, fino ad esaltare la vittoria finale. Ma davvero una guerra si può concludere con una vittoria? O non ha ragione papa Francesco quando, la settimana scorsa, nella sua omelia al cimitero militare americano di Nettuno ci ha ricordato, con voce ai limiti dell’angoscia, che con la guerra perdono sempre tutti?

Forse può allora essere utile riandare alle tragedie del secolo scorso e cercare di ricavare lezioni che molti, anche oggi, non sembrano voler imparare quando insistono ad esaltare il “mito della nazione”, contro il quale ci mise in guardia Luigi Einaudi in un lungo articolo sul Corriere della sera già a dicembre del 1918. Da allora è passato un secolo, alla Prima guerra mondiale – quella dell’”inutile Strage”, nelle parole di Benedetto XV – è seguita, appena vent’anni dopo, la tragedia ancora più grande della Seconda guerra mondiale con l’Europa è ancora sotto la pressione crescente di spinte nazionaliste, alle prese con il fascino tossico dei confini da trasformare in frontiere tendenzialmente ostili, brodo di coltura delle barriere, fisiche e non solo, che si vanno moltiplicando un po’ ovunque.

Abbiamo dimenticato come i confini, spesso cicatrici solo provvisoriamente rimarginate di ferite profonde, siano stati in Europa causa o occasione di guerre e loro dolorose conseguenze, che hanno separato popoli fratelli, se non fratelli di uno stesso popolo.

Ci siamo dimenticati che i confini non sono necessariamente barriere, ma anche luoghi di cerniera tra territori vicini che hanno tutto interesse a vivere in pace e a dialogare tra di loro. Stiamo di nuovo trasformando confini amministrativi in frontiere pronte al conflitto: lo stiamo vedendo nei dintorni immediati dell’Unione Europea, in Ucraina e in Medioriente; lo abbiamo visto tragicamente all’opera solo un quarto di secolo fa con la moltiplicazione di frontiere nella ex-Jugoslavia, lo ritroviamo molto vicino all’Italia con la frantumazione della Libia e la dissoluzione di quello Stato.

Forse non tutti si sono accorti che il “virus della frontiera” sta attecchendo anche nella “pacifica” Unione Europea, che da oltre settant’anni non conosce guerre al suo interno, ma non per questo è esente da rischi come quelli legati alla costruzione di nuove barriere/frontiere interne all’Europa. Dopo aver meritoriamente contribuito ad abbattere nel 1989 il Muro di Berlino, gli europei hanno iniziato ad erigere altri muri: sono già della fine degli anni ’90 le barriere spagnole di Ceuta e Melilla, costruite a spese dell’UE, ai bordi del Marocco; più recenti quelle tra la Grecia e la Macedonia, tra la Turchia e la Grecia da una parte e della Bulgaria dall’altra, tra l’Ungheria e la Serbia e, all’interno dell’Unione Europea, tra Austria e Croazia e tra Francia e Gran Bretagna, a Calais. Tutto questo mentre resta irrisolta, all’interno dell’UE, la situazione di Cipro, divisa dal 1975 tra la parte greca e quella turca.

Come se non bastasse rischi di altre nuove frontiere si profilano nell’UE: quella tra l’Irlanda del nord e la Repubblica d’Irlanda, regalo avvelenato della Brexit e quella improbabile, frutto di un azzardo indipendentista, tra Spagna e Catalogna.

Spesso le frontiere sono state l’anticamera di contese territoriali, l’innesco di micce che hanno fatto esplodere conflitti: proprio quello di cui né il mondo né l’Europa ha bisogno, immersi come già siamo dentro questa “terza guerra mondiale a pezzetti”, che continua a ricordarci papa Francesco.

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