Clima teso alla vigilia del vertice ONU di Parigi

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Sono proseguiti nel corso del mese di ottobre due importanti negoziati mondiali, il cui esito peserà e non poco sulla nostra vita futura: quello per il contrasto al surriscaldamento climatico e quello per la creazione di uno spazio commerciale comune tra Unione Europea e Stati Uniti.

Si tratta di due negoziati che hanno caratteristiche comuni: tra queste, il fatto che si svolgano all’insaputa dei più, compresi di quanti per mestiere, come gli operatori dell’informazione, o i politici nostrani e no che, per il mandato ricevuto dovrebbero farsi promotori di un dibattito pubblico, almeno nel piccolo collegio elettorale che accudiscono con comprensibile interesse.

Anche se con scadenze diverse, per entrambi i negoziati le conclusioni non sono più lontane: forse il 2016 per il TTIP (Partenariato Transatlantico di commercio e investimento) e fra poco più di un mese a Parigi per la COP 21, il Vertice ONU per la lotta al surriscaldamento climatico.

Vista l’urgenza, limitiamoci a qualche informazione e considerazione su quest’ultimo negoziato, cominciando con un sommario “stato dell’arte” sull’argomento, adesso che l’ultima sessione negoziale preparatoria si è conclusa a Bonn la scorsa a fine ottobre, licenziando un documento ancora molto lontano dalle decisioni urgenti che si impongono.

Sul tavolo dei Capi di Stato e di governo di 195 Paesi arriverà un documento di 55 pagine, meglio di quanto accadde al fallimentare Vertice di Copenaghen nel 2009, dove un malloppo di oltre 300 pagine, con un migliaio di opzioni aperte, impedì che si giungesse a un accordo. Nessuna garanzia però che a Parigi possa andare meglio, se, proprio nel decisivo art. 2, quello sull’obiettivo di una soglia di aumento massimo della temperatura mondiale, si assiste a un balletto di decimali attorno alla soglia di quell’aumento massimo del 2% che ampi settori della scienza già giudicano ad alto rischio per la sopravvivenza del pianeta. Basta questo per prevedere quanto aspra sarà la lotta per qualche decimale in più o in meno. Solo che da quei decimali dipendono il futuro del pianeta, ma anche i costi da assumere per una crescita sostenibile e le prospettive di sviluppo dei Paesi di più recente industrializzazione, dopo che quelli più “avanzati” – si fa per dire – hanno inquinato senza vincoli di soglia e grandi margini di profitto.

Questo spiega perché a Parigi si affronteranno aree geografiche ed economiche con interessi e proposte molto divergenti, difficili da comporre in un’intesa universale e vincolante per tutti, in grado di aggiornare gli impegni del Protocollo di Kyoto del 1997, entrato in vigore nel 2005 e scaduto nel 2012.

L’orizzonte temporale è quello del 2030, data alla quale gli obiettivi da raggiungere divergono da Paese a Paese. Gli USA puntano a ridurre le emissioni dei gas a effetto serra, responsabili del surriscaldamento climatico, dal 26 al 28% rispetto al 2005, la Russia del 6-11%, il Giappone del 20%, il Canada del 30%, l’UE del 40%, mentre la Cina si impegna a una riduzione non quantificata e a un aumento dei combustibili non fossili al 20%. Superfluo aggiungere che i Paesi petroliferi e quelli contrari ad un processo di decabornizzazione (in Europa è il caso per la Polonia) frenano su questi negoziati e che il Paesi di recente e futura industrializzazione non vogliono vincoli che altri in passato non hanno avuto. Per sostenere lo sviluppo di questi ultimi sarà necessario investire in nuove tecnologie “pulite” e per questo a Parigi dovrebbe essere creato un fondo alimentato dai Paesi più ricchi con 100 miliardi di dollari all’anno, più un incoraggiamento che non una compensazione.

Come già accade da anni, l’Unione Europea conduce una battaglia di avanguardia in materia di politica ambientale e a Parigi i 28 Paesi UE si presenteranno compatti, confermando non solo il loro impegno per una riduzione obbligatoria delle emissioni del CO2 del 40%, ma anche per portare al 27% della produzione totale la quota di energia pulita proveniente da fonti rinnovabili e per incrementare, entro il 2030, del 27% l’efficienza energetica a livello europeo.

Non sono del tutto soddisfatti i movimenti ambientalisti, ma con i chiari di luna della crisi, le pressioni della competizione economica mondiale, le incertezze della politica USA nel fine mandato di Obama e le resistenze della Cina, la piccola Europa a Parigi fa figura di leader.

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