Brexit senza la protezione dell’Unione Europea

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Basta uno sguardo superficiale a quello che accade nel mondo per registrare un diffuso malessere, se non peggio. Come nel caso delle repressioni in Cina e in Iran, delle spinte all’emigrazione da territori in guerra o in gravi crisi economiche o, più vicino a noi, del genocidio che si va consumando in Ucraina o anche solo delle tensioni che continuano a covare nei Balcani.

Sulla mappa del mondo l’Europa fa figura di un’isola, se non felice, almeno al riparo da forme diverse di aggressione, meno esposta di altri Paesi a crisi economiche e sociali e ancora protetta da un sistema di un Welfare di cui non si trova traccia nel resto del mondo.

In questa Europa una protezione particolare è assicurata dal processo di integrazione europea, quello che ha raccolto oggi quasi mezzo miliardo di abitanti in 27 Paesi, colloca l’UE come prima potenza commerciale del mondo e potrebbe accogliere nella progettata “Comunità politica europea” molti altri Paesi, alcuni dei quali bussano da anni alle porte dell’UE.

Fa eccezione in questo scenario un Paese in Europa, ricco di storia e di forza economica come il Regno Unito, fuoriuscito dall’UE a fine 2020 e oggi alle prese con un bilancio di questi ultimi due anni, non proprio in attivo rispetto ai cinquant’anni di vita comunitaria.

Dopo le turbolenze politiche, succedute all’azzardato referendum del 2016, il Regno Unito è corso ai ripari con un nuovo affannato tentativo dei conservatori di sopravvivere con un nuovo governo, oggi costretto a valutare i costi della sua secessione dall’UE. E non c’è da stare allegri con i numeri che segnalano un’economia in difficoltà e una riduzione della capacità commerciale britannica, risultati che contraddicono gli obiettivi perseguiti da Brexit proprio su questi due versanti.

Vediamoli allora questi numeri che raccontano di una crisi economica peggiore dei Paesi UE, che già tanto bene non vanno neanche loro. Il Prodotto interno lordo ha segnato il peggior arretramento in Europa, peggio solo la Russia, colpita dalle sanzioni occidentali; il mercato del lavoro paga la mancanza di lavoratori stranieri, l’inflazione è la più alta tra i Paesi occidentali e non accenna a ridursi l’anno prossimo, come invece è previsto per Germania, Francia e Italia. Senza dimenticare che Brexit ai cittadini britannici è costata un aumento di oltre sei miliardi di euro per la sola alimentazione. 

Anche più deprimenti i risultati sul versante commerciale, se si ricorda che un argomento privilegiato per sostenere l’uscita dall’UE era quello per il Regno Unito di avere le mani libere per ridiventare una grande potenza commerciale a livello mondiale, forse animati dalla nostalgia per l’impero che fu.

A questo si aggiunga che con Brexit il Regno Unito si è infilato da solo in una trappola dalla quale adesso non sa come uscire: quello dei suoi confini con l’Irlanda del nord, rimasti aperti agli scambi con l’UE, a salvaguardia di una frontiera riappacificata con la Repubblica irlandese, per non ritornare a un passato di violenze drammatiche.

Adesso che la frittata è stata fatta, resta da vedere come rimediarvi. Da parte britannica, e del partito conservatore in particolare, non è ancora tempo di revisioni radicali, ma cresce nell’opinione pubblica la domanda di ripensare al futuro dell’isola dopo che la Manica si è allargata senza che gli altri oceani si siano ristretti per far posto alle mire commerciali britanniche.

Si tratta anche di un altro avvertimento ai Paesi UE, in particolare quelli con governi a guida nazional-populista, tentati di allentare i legami all’interno dell’Unione, riducendone le competenze e riaffermando una sovranità nostalgica che al Regno Unito è già costata cara.

Ci sono segnali che è meglio cogliere prima che sia troppo tardi.

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