Quando all’indomani della seconda guerra mondiale i Padri fondatori delle prime Comunità europee, diventate Unione Europea nel 1992, misero mano al cantiere della straordinaria avventura del processo di integrazione europea sapevano di intraprendere una strada in salita, ma speravano che il traguardo di una comunità politica sarebbe progressivamente stato raggiunto nel tempo, contribuendo alla riunificazione di un continente andato in frantumi con la guerra.
Sapevano talmente bene quanto fosse difficile l’impresa al punto da dichiarare fin da subito che a farla progredire verso il traguardo sarebbero state le crisi che avrebbe inevitabilmente dovuto affrontare. E le crisi in questi oltre settant’anni di vita dell’Unione Europea non sono certe mancate e un contributo rilevante lo hanno dato alla costruzione di questa opera straordinaria che aveva l’ambizioso obiettivo di costruire una “democrazia tra le nazioni” a fondamento di una progressiva sovranità europea a rafforzamento delle sovranità nazionali.
Adesso che una nuova legislatura UE si sta aprendo, dopo il voto di giugno, di nuovo i rischi di crisi anche gravi non mancano. Oltre ad essere questo un sentimento diffuso tra i cittadini delusi dalle risposte che mancano alle loro attese, voci autorevoli di diversi profili istituzionali lanciano l’allarme. Per rimanere a personalità a noi più vicine, si stanno associando a questo richiamo il nostro Presidente della Repubblica, ex-presidenti del Consiglio italiano come Romano Prodi, Mario Monti, Paolo Gentiloni, Enrico Letta e Mario Draghi, senza dimenticare l’appello costante all’Europa di papa Francesco. Di Draghi è sul tavolo dei Vertici europei un Rapporto che invoca nuove politiche e riforme urgenti, accolto con imbarazzata reticenza da molti governi nazionali che dovranno decidere nel merito.
Del Rapporto Draghi è destinataria in prima battuta la Commissione europea e la sua presidente, Ursula von der Leyen, alle prese con la formazione del suo “governo”, di cui è appena stata annunciata la nascita dopo un parto travagliato e che adesso deve passare sotto le forche caudine del Parlamento europeo al quale spetta l’approvazione finale.
In Italia il confronto si è sviluppato prevalentemente attorno al nome del candidato, il ministro Raffaele Fitto, e al portafoglio di rilievo rivendicato dal governo italiano, nonostante la distanza di questo dalla maggioranza politica europea uscita dalle urne. L’esito è stato di raffinata abilità politica: affidamento al candidato italiano di una bandiera politica con una delle sei vicepresidenze esecutive, temperata da una significativa riduzione delle competenze nel portafoglio assegnato.
Di un aspetto centrale si è però parlato poco ovunque, dimenticando quanto recita il Trattato di Lisbona, attualmente in vigore, all’art. 17: “I membri della Commissione sono scelti in base alla loro competenza e al loro impegno europeo e tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza. La Commissione esercita le sue responsabilità in piena indipendenza…i membri della Commissione non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo…”.
Si tratta di un dettato che mal si accorda con l’evidente postura dei governi nazionali – e in Italia è stato di un’evidenza totale – di considerare il “loro” commissario come rappresentante degli interessi del governo, inviato a Bruxelles a difendere la Nazione e i suoi presunti interessi, con tanti saluti al suo “impegno europeo” e alla sua “piena indipendenza”. Su questi aspetti non mancherà di tornare il Parlamento europeo prossimamente e non sono escluse sorprese.
E’ anche calpestando questi impegni che la straordinaria avventura europea resta un’opera incompiuta, come ci ha ricordato pochi giorni fa il presidente Mattarella e non basta consolarsi con il detto “mal comune, mezzo gaudio” perché di questo passo, se non si rafforzano le fondamenta comunitarie dell’UE, resterà solo il male, senza gaudio per nessuno.