Cittadinanza: molte normative, pochi diritti

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Negli ultimi due decenni, in seguito all’aumento dei flussi migratori e alle significative trasformazioni demografiche e sociali ad essi legate, si è intensificato il dibattito a livello internazionale e soprattutto europeo sul concetto di cittadinanza. La costituzione della «cittadinanza europea» definita a partire dal Trattato di Maastricht ha rappresentato un’importante novità  , ma non ancora un passaggio dalla cittadinanza basata sulla nazionalità   ad una basata sulla residenza. I cittadini di Paesi terzi residenti regolarmente nell’UE sono infatti esclusi dalla possibilità   di accedere automaticamente alla cittadinanza europea, che resta competenza esclusiva degli Stati membri e delle loro legislazioni, trovandosi così in una posizione giuridica differente.
Oltretutto, le profonde differenze normative e procedurali sulla concessione di cittadinanza esistenti tra i vari Paesi europei creano notevole confusione in merito a diritti e doveri che dovrebbero invece essere omogenei. Sarebbe dunque necessaria un’armonizzazione europea delle norme relative alla concessione della cittadinanza, ma ciಠdovrebbe avvenire con un livellamento verso l’alto e non con una progressiva limitazione dei diritti degli stranieri come invece si registra un po’ in tutta l’UE.

I principi «jus sanguinis» e «jus soli»
Attualmente, come riporta uno studio (cfr. Bertocchi G., Strozzi C., 2009) basato sulla banca dati The Citizenship Laws Dataset, nella maggioranza dei Paesi europei l’acquisizione della cittadinanza alla nascita è regolata dall’applicazione di un mix di due sistemi: lo «jus sanguinis» e lo «jus soli». Secondo il primo il criterio è la pura appartenenza genealogica (chi discende da cittadini di un certo Paese è cittadino), mentre per il secondo il criterio è il luogo di nascita (chi nasce sul territorio nazionale di un certo Paese è cittadino). Mentre ad esempio gli Stati Uniti hanno da sempre applicano lo «jus soli», la maggior parte dei Paesi europei (inclusa l’Italia) proviene da una tradizione di «jus sanguinis», per motivi legati sia alla matrice giuridica di diritto civile, sia alla storia passata di prevalente emigrazione. «Nonostante il diritto di cittadinanza sia storicamente disciplinato da norme molto stabili, dagli anni Settanta in Europa si sta assistendo a una rinnovata attenzione da parte dei governi verso riforme anche sostanziali, con un’intensa attività   legislativa che in molti casi ha introdotto regimi misti» osservano le autrici dello studio.

Con le migrazioni norme più restrittive
Tra le cause che hanno caratterizzato l’evoluzione delle leggi sulla cittadinanza va considerato innanzitutto l’impatto dei flussi migratori. In generale, infatti, un aumento dei flussi migratori produce un inasprimento delle condizioni che sanciscono l’acquisizione della cittadinanza nei Paesi che adottano lo «jus soli» o un regime misto, mentre nei Paesi di tradizione «jus sanguinis» che hanno sperimentato rilevanti flussi migratori emerge una tendenza a introdurre elementi di «jus soli». «La spinta verso l’inclusione è tuttavia molto più debole di quella verso l’esclusione, poichà© i Paesi più liberali tendono a restringere mentre i Paesi più restrittivi tendono ad essere più inclusivi ma solo molto lentamente» sottolineano Bertocchi e Strozzi, precisando che «un aumento dei flussi migratori si dimostra un fattore che influisce sulla legislazione rendendola più restrittiva».
Un altro fattore che influenza le normative in materia di cittadinanza è costituito dall’instabilità   dei confini nazionali, che tende ad impedire l’adozione di elementi di «jus soli» poichà© rende difficile la determinazione del territorio nazionale. Fattore rivelatosi cruciale ad esempio durante la fase di decolonizzazione seguita alla Seconda guerra mondiale, provocando un’estensione dell’applicazione dello «jus sanguinis» nelle ex colonie, o che nella recente storia europea ha profondamente influenzato le politiche tedesche, permettendo una maggiore inclusione solo dopo la caduta del muro di Berlino. Lo studio rileva poi come l’invecchiamento della popolazione e un elevato grado di democrazia siano associati a legislazioni con più spiccati elementi di «jus soli», mentre le autrici osservano che «uno Stato sociale generoso non sembra rappresentare un ostacolo alla maggiore inclusione degli immigrati tramite la concessione della cittadinanza».

Le differenze normative tra i Paesi dell’UE
Le procedure e le condizioni materiali per l’acquisizione della cittadinanza variano sensibilmente tra i Paesi dell’UE e sono tuttora in trasformazione, come dimostrano ad esempio le recenti proposte avanzate nel Regno Unito, in Italia e in Grecia. Si possono così osservare approcci differenti tra loro, che alcuni studi sulla materia distinguono tra posizioni che mirano al contenimento delle naturalizzazioni, altre più aperte e altre ancora decisamente più liberali. Il Dossier immigrazione Caritas/Migrantes 2009 riassume a grandi linee le diverse posizioni, individuando alcuni gruppi di Paesi dell’UE sulla base delle affinità   di approccio rispetto alla concessione di cittadinanza.
In Paesi come Italia, Danimarca, Grecia e Austria, ad esempio, richiedere la cittadinanza per residenza è possibile solo dopo 9-10 anni di iscrizione all’anagrafe, così come non è automatico ma invece piuttosto difficoltoso ottenere la cittadinanza anche se si è nati nel territorio del Paese ma da genitori stranieri. Nel caso dell’Italia, la legge del 1992 attualmente in vigore prevede che il figlio di stranieri nato in Italia possa inoltrare domanda di cittadinanza una volta raggiunta la maggiore età  , entro un anno di tempo e a condizione che abbia risieduto in Italia «senza interruzioni» dalla nascita. Non vi sono dunque elementi anche blandi di «jus soli» quali per esempio il «doppio jus soli», che facilita l’ottenimento della cittadinanza per chi nasce sul territorio nazionale da stranieri a loro volta nati sullo stesso territorio (come in Francia), o di facilitazioni per chi nasce sul territorio nazionale da stranieri residenti (come in Germania).
Esiste poi un gruppo di Paesi «più aperti» costituito da Irlanda, Belgio, Portogallo e Spagna, dove la residenza richiesta per ottenere la cittadinanza è sempre elevata (dai 7 anni del Belgio ai 10 di Portogallo e Spagna) ma le norme sono più morbide nei casi di nascita nel Paese. In Irlanda, ad esempio, i nati nel Paese da genitori stranieri possono ottenere la cittadinanza se uno dei genitori ha un permesso di residenza permanente o ha risieduto regolarmente nel Paese per almeno tre anni prima della nascita del figlio. In Spagna ottengono la cittadinanza gli «stranieri» nati nel Paese se dimostrano di avervi risieduto almeno un anno dal momento della nascita, mentre in Portogallo è prevista la naturalizzazione alla nascita se uno dei genitori stranieri ha risieduto nel Paese dieci anni o sei se proveniente da un Paese di lingua portoghese. In Belgio la cittadinanza è automatica a 18 anni se si è nati nel Paese o entro i 12 se i genitori stranieri vi hanno risieduto per dieci anni.
Un caso particolare è quello della Germania, che dopo una lunga tradizione di «jus sanguinis» nel 1999 ha ridotto a otto gli anni di residenza per richiedere la cittadinanza e ha introdotto l’automatismo per le seconde generazioni, se uno dei genitori stranieri ha risieduto regolarmente negli otto anni precedenti e ha un permesso di soggiorno permanente.
Tra i Paesi «più liberali» vi sono invece Paesi Bassi, Regno Unito e Francia, anche se negli ultimi due sono in discussione proposte restrittive. Al momento, in tutti e tre i Paesi sono richiesti solo cinque anni di residenza per ottenere la naturalizzazione e vigono ancora norme piuttosto aperte per i nati sul territorio nazionale da genitori stranieri. In altri Paesi come Svezia, Finlandia e Lussemburgo esistono norme piuttosto favorevoli per la naturalizzazione ma meno per quanto concerne le seconde generazioni.

Critiche alla proposta di riforma italiana
Se l’Italia è già   tra i Paesi meno favorevoli alla concessione di cittadinanza, le proposte in discussione al Parlamento rischiano di peggiorare ulteriormente la situazione. Secondo le critiche di varie organizzazioni e associazioni italiane, infatti, la proposta in esame non solo «non modifica il requisito di residenza decennale attualmente richiesto per la procedura di naturalizzazione, ma anzi introduce l’ulteriore restrizione dell’obbligo di possesso del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti e della frequenza di un corso della durata di un anno, finalizzato all’approfondimento della conoscenza della storia e della cultura italiana ed europea, dell’educazione civica e dei principi della Costituzione italiana, propedeutico alla verifica del percorso di cittadinanza». Nessuna facilitazione poi per le seconde generazioni di immigrati: è mantenuto il requisito della residenza legale dalla nascita fino al compimento della maggiore età  , con l’ulteriore restrizione della necessità   dell’assolvimento del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. «La cittadinanza così pare più un premio che un diritto per chi è nato nel territorio italiano ed è figlio di stranieri» osserva la Rete G2 delle seconde generazioni, aggiungendo poi che non si considerano coloro che non sono nati ma cresciuti in Italia e per questo rivolge un appello ai parlamentari «affinchà© le seconde generazioni abbiano pieno diritto di cittadinanza. Oggi ancora di più, di fronte a un testo che non ci dimentica ma addirittura ci vuole premiare con la discriminazione più totale».

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