Unione Europea tra Brexit e Trump

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Sarà un anno ricco di sorprese per l’UE quello appena cominciato.

Non ci saranno solo quelle, non troppo allegre, delle consultazioni elettorali in Olanda, Francia e Germania. I fuochi d’artificio cominceranno già subito nel primo trimestre: il 20 gennaio con l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca e a marzo l’avvio della procedura di divorzio del Regno Unito dall’Unione Europea.

Qui la sorpresa potrebbe venire da un possibile rinvio o, comunque, dalle nebbie che continuano dense oltre Manica sulle prospettive del divorzio, al punto che la premier Theresa May, si è già guadagnata l’appellativo di Lady Maybe (Signora Forse).

Ogni giorno è portatore di novità e di molti ripensamenti che muovono sotto traccia e rendono azzardata ogni previsione, in perfetta coerenza con l’azzardo del referendum di Brexit del giugno scorso. Non è senza significato la decisione dell’ambasciatore britannico presso l’UE di lasciare l’incarico, senza fare mistero del suo dissenso sull’atteggiamento del governo di Sua Maestà e sulle ricadute negative del distacco dal continente.

Intanto è attesa la decisione della Corte Suprema britannica sulla competenza, contesa tra governo e Parlamento, dell’avvio della procedura di divorzio e sembra improbabile che, nel Paese del parlamentarismo, questa possa essere sottratta al Parlamento. Il piccolo problema è che nel Parlamento britannico i numeri, almeno teoricamente, sono in favore della permanenza del Regno Unito nell’UE o, almeno, non disponibili a una rottura radicale. Si apre uno scenario ancora tutto da disegnare, anche perché lo stesso governo continua ad essere in alto mare sulla strategia negoziale a fronte dei Ventisette, per ora compatti nel resistere a soluzioni in cui il Regno Unito manterrebbe i vantaggi della partecipazione al mercato europeo e si alleggerirebbe dei relativi vincoli.

Più dirompente e più incombente la sorpresa da oltre Atlantico, dove Trump alza i toni del protezionismo, minacciando di sanzionare le imprese americane che investono all’estero, come già avvenuto con la Ford, e di manovrare la leva fiscale verso il basso per rilanciare l’economia americana, con effetti prevedibili sul già massiccio debito pubblico americano.

Il tema della fiscalità rischia nei prossimi mesi di diventare centrale, con pesanti ricadute anche in Europa, sui suoi bilanci pubblici e sulla sostenibilità dei nostri sistemi di welfare.

E’ già iniziata la corsa alle riduzioni fiscali sul reddito d’impresa: in questo senso si sta muovendo il Regno Unito, l’Ungheria, l’Austria e il Lussemburgo, e sono solo le prime avanguardie. Sarà difficile per l’Europa, chiamata a onorare il suo valore fondante, quello della solidarietà, trovare le risorse per sostenere le sue fasce più deboli, a partire da quel suo 25% di popolazione a rischio povertà.

Né contribuirà a trovare soluzioni al problema dei flussi migratori l’ondata di protezionismi che si è alzata in ogni parte del mondo: trattenere investimenti e consumi all’interno di ciascun Paese in nome del “patriottismo economico” condanna i cittadini dei Paesi in difficoltà a cercare lavoro altrove e non saranno muri e reticolati ad arrestarli.

Intanto il 2017 si è aperto con il turno di presidenza maltese, dal quale l’Italia si aspetta maggiore attenzione al problema dei flussi migratori e, in particolare, alla riforma del Regolamento di Dublino sul diritto d’asilo.

E sempre a proposito di presidenze istituzionali è imminente il cambio della guardia alla guida del Parlamento europeo. Il socialista tedesco Martin Schulz lascia la Presidenza dopo averla tenuta per cinque anni. I patti con il Partito popolare europeo (PPE) prevedevano che fosse un popolare a succedergli, ma nel frattempo due esponenti del PPE hanno occupato due altre presidenze importanti, quella della Commissione europea, con il lussemburghese Jean Claude Junker, e quella del Consiglio europeo, con il polacco Donald Tusk. Un quadro istituzionale troppo squilibrato secondo i socialisti che corrono per la Presidenza del Parlamento europeo con un loro candidato, Gianni Pittella, in competizione con un altro italiano del PPE, Antonio Tajani. Tra i due contendenti era anche spuntata la candidatura del belga Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga, liberale e convinto europeista.

La piroetta di Grillo che ha abbandonato, senza troppi complimenti e consultazioni il gruppo con Nigel Farage, l’uomo della Brexit ormai inservibile, per aggregarsi al gruppo dei liberali europei pro-UE, che gli hanno sbattuto la porta in faccia, non solo ha messo il Movimento Cinque stelle alla berlina in Europa, e si spera abbia aperto gli occhi anche in Italia, ma ha anche screditato la figura finora apprezzata di Verhofstadt, alla ricerca di voti per la sua candidatura.

Al di là di questi spericolati giochi di palazzo, resta che l’UE, stretta tra la furia di Trump e le incertezze britanniche, sarà costretta a navigare a vista, cercando di stare a galla in attesa di un’iniziativa politica che tarda a venire. E che è improbabile si manifesti all’appuntamento del Consiglio europeo del 25 marzo in Campidoglio, quando si celebreranno i sessant’anni del Trattato di Roma, l’impianto istituzionale e politico della straordinaria avventura del processo di integrazione europea, oggi paralizzata da miopi interessi nazionali.

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