Sono in molti in questi giorni, in particolare dopo il clamoroso successo di Donald Trump, a chiedersi che cosa possa fare l’Unione Europa, per sé e per il mondo. La risposta non è facile e deve fare i conti con un realismo non esaltante, che non giustifica però rassegnazione e, ancor meno, resa a chi nel mondo preferisce l’arma della forza e della guerra piuttosto che il dialogo civile e gli strumenti del diritto, europeo ed internazionale.
Si tratta di rafforzare l’argine, ora sotto pressione, di una convivenza mondiale regolamentata civilmente in grado di consentire un dialogo tra i diversi attori, cominciando con non innalzare nuovi muri, dopo avere abbattuto quello di Berlino esattamente 35 anni fa.
Come spesso è capitato all’Unione, quell’occasione non è stata colta per rilanciare il suo progetto di integrazione politica e di riunificazione continentale in dialogo con la Russia che, adesso, preme ai nostri confini e minaccia i Paesi candidati ad entrare nell’UE come, tra gli altri, la Moldavia, la Georgia dopo aver aggredito l’Ucraina.
Non abbiamo costruito ponti in casa nostra e così abbiamo lasciato crescere i rischi di disgregazione di una comunità minacciata da crescenti movimenti nazional-populisti, proprio quando dovremmo presentarci uniti davanti alle sfide che il mondo non ci risparmierà.
Perché chi non costruisce ponti in casa propria, difficilmente può costruirne con il resto del mondo dove un ponte, storicamente importante, come quello tra le due sponde dell’Atlantico manda sinistri scricchiolii dopo il recente voto americano e un altro si era indebolito gravemente tra le due sponde della Manica con la secessione britannica dall’UE.
Muri e non ponti abbiamo offerto a quanti fuggono da guerre e povertà e i soli ponti che abbiamo progettato, come in Albania, erano quelli da utilizzare per rispedire a casa i migranti, mentre innalzavamo muri alla soglia dei nostri confini, come in Libia o Tunisia, perché incapaci di costruire ponti per flussi regolari e governati, tra l’altro indispensabili per la nostra economia futura e per la salvaguardia del nostro sistema di welfare.
E così abbiamo anche disimparato l’arte coraggiosa di lanciare ponti verso mondi lontani, come verso la Cina e l’India, due regioni del mondo che sono il futuro degli scambi commerciali, oggi tentate di alzare barriere protezioniste, incoraggiate in questo senso dalla futura nuova Amministrazione americana che con i dazi non risparmierà nemmeno l’Unione Europea.
Il pensiero va a Marco Polo, rievocato a 700 anni dalla sua morte dal Presidente Sergio Mattarella a Pechino la settimana scorsa, come un’avanguardia di una cultura europea aperta al mondo, fiduciosa nello sviluppo degli scambi commerciali, creatrice di ponti che nei secoli hanno anticipato una globalizzazione che fin da allora aveva intrecciato progressivamente le economie del pianeta.
Una globalizzazione che adesso rischia di lasciare il posto a una frammentazione di competizioni ostili, con l’illusione di proteggere ciascuno al riparo dai propri muri, proprio mentre sarebbe di nuovo il momento, ed è adesso, di riprendere la strada della cooperazione, anche a garanzia di una pace a rischio.
La vocazione dell’Unione Europea è quella di una “potenza civile”, un potenziale che ha sviluppato troppo poco negli anni, dove è prevalsa la “potenza commerciale” e adesso si trova davanti a un bivio tra la sua vocazione originaria e la spinta verso una “potenza militare”, priva di un fondamento in una politica estera comune e alle dipendenze di un’alleanza militare, la NATO, alla ricerca di una “autonomia strategica” che finora non ha dato risultati significativi.
E’ importante che l’UE raggiunga anche questo obiettivo quanto prima, ma dando la priorità alla costruzione di ponti invece che di muri.