Non è la prima volta che viene annunciata la fine dell’Occidente. Resta nella memoria il libro di Oswald Splenger, “Il tramonto dell’Occidente”, pubblicato nel 1918 anno in cui si concluse la Prima Guerra mondiale e con essa il suicidio dell’Europa. Nonostante quella profezia l’Occidente prolungò ancora a lungo la sua agonia, recidivo nel confermare la sua vocazione al suicidio con la Seconda Guerra mondiale, ma tenuto ancora in vita dalle risorgenti democrazie in Europa, dal sostegno interessato degli Stati Uniti e dal progetto di integrazione europea, in vista di una progressiva e pacifica riunificazione continentale.
Questi tre punti di forza a sostegno dell’Occidente si sono tramutati in pericolose debolezze: le democrazie occidentali, ormai minoritarie nel mondo, non godono buona salute; gli Stati Uniti, prima potenza mondiale a rischio di declino, hanno spostato altrove nel mondo i loro interessi strategici e l’Unione Europea resta un progetto incompiuto, logorato da crescenti nazionalismi.
Quanto basta per far dire alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in una recente intervista al settimanale tedesco “Die Zeit”, che “l’Occidente, per come lo conoscevamo, non esiste più” o ad osservatori particolarmente pessimisti sull’Europa, come Massimo Cacciari, che “l’UE è fallita” o, come Lucio Caracciolo, che “L’Europa è una realtà metafisica”, poco più di un’illusione.
Che il mondo sia probabilmente ad una svolta epocale è valutazione largamente condivisa, ma che la profezia sulla morte dell’Occidente, annunciata come ineluttabile da Splenger un secolo fa, si stia inevitabilmente compiendo forse richiede qualche distinguo. A cominciare di cosa parliamo quando parliamo oggi di Occidente, in particolare se continuiamo a parlarne al singolare come di una realtà omogenea e orientata a valori ed interessi condivisi. E’ probabile che un simile Occidente non esista più da un pezzo, mentre i cambiamenti in corso li vediamo con ritardo, senza renderci conto delle faglie che in questo ultimo secolo hanno incrinato l’Occidente, consegnandoci oggi degli Occidenti al plurale, anche se ancora in confusa gestazione.
Per semplificare diamo uno sguardo alla composizione del G7, il Forum intergovernativo dei 7 Paesi più industrializzati del mondo di cui fanno parte Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti con la partecipazione dell’Unione Europea: una realtà in gran parte sovrapponibile al tradizionale “nucleo duro” dell’Occidente (Giappone a parte, ma nemmeno tanto) e oggi in via di progressiva ricomposizione.
Da una parte, un pezzo importante di Occidente naviga verso altre sponde con gli Stati Uniti di Trump ossessionati dalla Cina, mentre cercano un’aggregazione più stretta gli altri componenti del G7, cui si potrebbero aggiungere Paesi non limitrofi come Australia e Nuova Zelanda: due Occidenti in prospettiva, non ancora nemici ma già concorrenti se non avversari, in transizione da una vantaggiosa cooperazione ad una competizione che potrebbe annunciarsi ostile e perdente per entrambi.
Non è la fine del mondo, almeno speriamo, ma certamente la fine di un mondo nel quale l’Europa cerca una nuova collocazione con alleati vicini e lontani, come il battagliero Canada, senza rinunciare a dialogare con tutte le prudenze del caso con altri attori di primo piano, come India e Cina, ma anche con le medie potenze del Sud Globale che cercano un ruolo sulla scena mondiale.
Nella transizione in corso, l’Unione Europea, prima legittima erede della civiltà occidentale, dispone di un patrimonio di risorse importanti per reinventarsi e fare la sua parte nel grande continente euroasiatico e nella vicina Africa, riscoprendo legami culturali che conflitti secolari non hanno annullato e aprendo nuovi orizzonti per una futura cooperazione anche economica che, superate le tensioni attuali, possa contribuire alla pacificazione del mondo.