Un gregge di capri espiatori

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Come previsto, la notizia sulla recessione in Italia è arrivata puntuale, certificata dall’Istat. Difficile prendersela con il nostro apprezzato Istituto di statistica, tra l’altro ormai a guida leghista. Urgente quindi trovare altri capri espiatori, meglio ancora se il gregge è numeroso.

Stavolta in prima fila non sembra esserci la matrigna Unione Europea, cui il nostro governo dovrebbe riconoscenza per averlo trattenuto sull’orlo del baratro quando, favoleggiando di una crescita dell’1,5% per l’Italia, era pronto a far crescere il deficit fino al 3%, fermandosi poi a malincuore al 2,04% per il 2019, sempre che ci riesca.

Adesso che tutti quei conti sarebbero da rifare, il primo pensiero va a chi altri si potrebbe incolpare per essere finiti in recessione dopo quindici trimestri positivi, prima che al governo arrivassero i gialloverdi.

Come al solito il primo riflesso è domestico: colpa di chi ha governato prima. Per mancanza di pudore brillano i Cinquestelle, con le parole di due economisti di razza come il vicepremier Di Maio e la viceministra Castelli, quella che si illustrò per arroganza in un indimenticabile botta e risposta con Pier Carlo Padoan, ministro dell’economia, nel governo precedente. Non che non vi siano responsabilità di chi è venuto prima ma, come disse Alessandro Manzoni, non è detto che quello che viene dopo sia progresso.

E’ quanto stiamo constatando su molti fronti, da quello della disciplina finanziaria disinvoltamente sottovalutata alla politica estera latitante ed contraddittoria, come Afghanistan e Venezuela dimostrano.

Intanto la lista dei capri espiatori offre altre occasioni per scaricare le responsabilità: c’è il provvidenziale Trump, a volte amico altre meno, con le sue minacce protezioniste; c’è la Cina che rallenta; c’è la storia infinita di Brexit che tiene tutti con il fiato sospeso, a cominciare dagli sconcertati cittadini britannici e c’è, più vicino a noi, il rallentamento dell’economia europea, in particolare di quella tedesca, con la quale condividiamo la caduta del mercato automobilistico, senza contare l’incertezza politica della tanto detestata Francia, un capro espiatorio da sogno per chi ha espresso solidarietà con i “gilet gialli”, violenze comprese.

Bruxelles, per una volta fuori dal mirino dei gialloverdi, guarda con preoccupazione quanto accade in Italia, seconda industria manifatturiera d’Europa ma anche secondo Paese, dopo la Grecia, con il debito pubblico più alto dell’UE, senza che ci siano in vista speranze di una sua riduzione.

Bruxelles sa anche che nella congiuntura politica attuale, a poco più di tre mesi delle elezioni europee e con il ricambio completo, nel prossimo semestre, di tutti i Vertici delle Istituzioni UE, sono molto limitati i margini di manovra per condurre alla ragione e a un sano realismo forze politiche la cui priorità assoluta è una forsennata propaganda elettorale, piuttosto che il governo dell’economia e, men che meno, la ricerca di una convergenza delle politiche fiscali nell’eurozona.

Per il governo italiano è il momento di allargare i cordoni della borsa, con il miraggio che quota 100 consenta una marea di nuovi posto di lavoro e che il reddito di cittadinanza rilanci i consumi, in attesa che vengano tempi migliori per l’export, mentre si svuotano le casse dello Stato e il facente funzione presidente del Consiglio annuncia con grande audacia che il 2019 per l’Italia sarà “bellissimo”.

Tutto rinviato all’indomani delle elezioni europee: sia un ripensamento dei gialloverdi sia, probabilmente, anche un richiamo da parte dell’Unione Europea. L’appuntamento è a dopo le vacanze, sempre che al rientro non ci siano troppe macerie.

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