UE: dopo i nuovi vertici, quali le politiche?

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Mai nella storia dell’UE la composizione di una nuova Commissione europea aveva provocato contese politiche come quelle di quest’ultimo mese.
Non che l’occasione non scatenasse in passato appetiti e confronti anche duri tra i Paesi UE che si contendevano un posto al vertice di un’Istituzione comunitaria, la cui importanza era peraltro andata scemando dopo la gestione di Jacques Delors, a cavallo degli anni ’80. La competizione si giocava tra i governi nazionali che ambivano a quel posto, magari anche per piazzare nomi diventati scomodi in patria.
La novità della contesa attuale risiede nell’inedito conflitto tra i governi nazionali da una parte e il Parlamento europeo e i suoi cittadini – elettori dall’altra.
In passato il Parlamento era riuscito a far pesare marginalmente i suoi ancora scarsi potere nel rigettare la designazione di singoli commissari, come sa bene il nostro Buttiglione rimandato a casa per le sue dichiarazioni fuori misura.
La situazione è in parte cambiata con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che associa la nomina del Presidente della Commissione all’esito del voto europeo. E il responso delle urne è stato chiaro: la riconquistata maggioranza del Partito popolare europeo, anche se di misura sul Partito socialista, ha spinto quest’ultimo e gli altri partiti filo-europei (Tsipras compreso) a chiedere ai Governi che venisse rispettata la scelta degli elettori. Una sorta di “larghissime intese” per affermare il primato della democrazia parlamentare europea – in pericolo agli occhi di molti – sul potere dei governi nazionali, imbarazzati da una legittimazione popolare diretta di un’autorità tendenzialmente federale.
Benché giuridicamente possibile, una nomina da parte del Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo in dispregio del voto popolare, sarebbe stata non solo politicamente inopportuna in una congiuntura come l’attuale, ma avrebbe potuto provocare una grave crisi istituzionale: per essere adottata la decisione del Consiglio europeo ha infatti bisogno di ottenere la maggioranza assoluta al Parlamento. Per evitare questi rischi un accordo è stato trovato, con la regia di Angela Merkel e il sostegno di Matteo Renzi: il leader dei popolari, Jean – Claude Juncker, proposto alla presidenza della Commissione e Martin Schulz a quella del Parlamento, tenendo in caldo la poltrona, meno importante, del Consiglio europeo per un altro esponente, probabilmente del Partito socialista.

Definiti i nuovi vertici istituzionali, adesso bisogna attivare nuove politiche, in parte già annunciate dai nomi scelti per guidare le Istituzioni UE: con Junker la conferma di una linea di continuità europeista (non spiaccia a David Cameron) e con Schulz l’impegno a inflettere le politiche verso investimenti per la crescita e l’occupazione, come chiedono in particolare Italia e Francia. Il tutto sotto l’occhio attento di Angela Merkel, che sembra aprire qualche spiraglio verso un’interpretazione flessibile del Patto di stabilità, in particolare allentandone i tempi di esecuzione e con la spinta impressa da Matteo Renzi, che l’altro ieri davanti alle Camere si è mostrato deciso a salire a Bruxelles non con il cappello in mano, ma come protagonista di una nuova Unione Europea, nell’interesse dell’Italia e dell’Europa, Germania compresa.

Di queste “larghe intese” europee avremo modo di vedere in futuro i risultati, ma due sono già evidenti: l’ondata euroscettica contribuirà probabilmente a rafforzarle e molti Paesi europei ne ricaveranno indicazioni per rimescolare le loro maggioranze politiche nazionali. Si tratta di risultati interessanti, che contribuiranno a modificare il paesaggio politico europeo. Con la speranza che quello di domani sia migliore di quello di oggi e, soprattutto, in grado di dare una nuova spinta in avanti all’Unione Europea.

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