Tregua tra Israele e Gaza

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È durata poco più di tre giorni l’ultima vampata di guerra tra Israele e Gaza, il tempo di mietere, nel campo palestinese, 44 vittime, di cui 15 bambini e centinaia di feriti. Il tempo anche di riportare alla ormai distratta attenzione di buona parte della comunità internazionale un doloroso conflitto che non trova la strada del dialogo e della pace da troppi anni.

Per tre giorni si sono infatti di nuovo incrociati in quei cieli missili e razzi e solo con la mediazione dell’Egitto, si è giunti nella notte del 7 agosto ad un fragile cessate il fuoco. Fragile e senza prospettive e dove il nuovo confronto non era più fra l’esercito israeliano e Hamas, che governa la Striscia di Gaza, ma fra l’esercito israeliano e la Jihad islamica palestinese. Un attore quest’ultimo certamente non nuovo sulla scena palestinese, che affonda le sue radici nei lontani anni settanta sulla scia della rivoluzione iraniana e il cui obiettivo rimane la lotta armata contro l’occupazione israeliana. 

Hamas, in questa ennesima guerra, ha seguito una strategia che lo pone in secondo piano rispetto all’intervento militare, favorendo, da una parte e a breve termine la mediazione dell’Egitto per una tregua e dall’altra, a più lungo termine, il difficile cammino di una riunificazione della resistenza palestinese, non solo a Gaza ma sull’insieme del territorio, sia all’interno di Israele che in Cisgiordania. 

Una strategia che si è delineata in particolare dopo la guerra del maggio 2021, durata undici giorni e che ha fatto, da parte palestinese più di 260 vittime e 14 da parte israeliana. Una guerra che ha approfondito ulteriormente le ferite della popolazione di Gaza che vive in condizioni disastrose e sotto embargo israeliano dal 2007, e cioè all’indomani della vittoria elettorale di Hamas nella Striscia di Gaza. L’esasperazione e le sofferenze della popolazione sono enormi. I 2,3 milioni di persone rinchiuse in un fazzoletto di terra, le guerre a ripetizione dal 2014 e un’economia al collasso hanno spinto Hamas ad alcuni compromessi con Israele per allentare la morsa delle restrizioni. Un’effimera boccata d’aria per una popolazione che non ha prospettive di futuro in un processo di pace, relegato quest’ultimo nel disinteresse della comunità internazionale e dove la prospettiva della creazione di due Stati rimane un pio e obsoleto strumento diplomatico.

Una situazione le cui ricadute si fanno sempre più sentire anche in Cisgiordania, dove lo stallo istituzionale e politico in cui da anni versa l’Autorità Palestinese alimenta l’esasperazione della popolazione e apre la strada a quella strategia di Hamas, della Jihad islamica palestinese e di altri gruppi armati di unire, anche nei Territori occupati, l’insieme della resistenza palestinese, raccogliendo un percepibile consenso popolare. Ne è la prova il moltiplicarsi delle operazioni militari israeliane non solo verso Gaza ma anche a Jenin e a Nablus in questi ultimi mesi, con il suo carico di vittime e come avvenuto, ultimo in data, con l’attacco palestinese ad un autobus a Gerusalemme il 14 agosto scorso. 

In questa inquietante prospettiva e di rinnovato conflitto, il Governo israeliano entra per la quinta volta in quattro anni in campagna elettorale. Un appuntamento previsto per il primo novembre prossimo, ma dove, fin da ora, non si sentono voci che parlino un linguaggio diverso da quello della forza. La pace non è certo all’orizzonte.

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