Tregua israelo-palestinese e scenari mediorientali

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Undici giorni di conflitto fra Hamas e Israele, consumatosi fra migliaia di tiri di razzi da parte di Hamas e bombardamenti israeliani su Gaza. Un vero e proprio massacro, che ha fatto 273 vittime, di cui 12 israeliane.

La tregua, accettata senza condizioni dalle due parti, ha messo fine, almeno temporaneamente, all’ennesima vampata di un conflitto che, da troppi anni a questa parte, non trova più la via del negoziato di pace e dove, con il passare del tempo, sono venute sempre più a mancare le condizioni di base necessarie per costruire due Stati e una convivenza rispettosa dei diritti dei due popoli.

Gli ultimi combattimenti e la tregua che ne è seguita offrono tuttavia l’occasione di guardare all’insieme della regione mediorientale, attraversata da numerose linee di frattura e di conflitti, ma anche da cambiamenti ed evoluzioni che guardano ad un futuro ancora difficile da interpretare. E’ in effetti la prima volta che gli attori regionali intervengono in prima posizione rispetto alla diplomazia internazionale.

Prima di tutto va sottolineato che la tregua è stata raggiunta, in particolare, grazie alla mediazione dell’Egitto, Paese che si avvia a conquistare nella regione un ruolo più incisivo, sostenuto in questa mediazione non solo dagli Stati Uniti, ma anche da alcuni Paesi europei, in particolare dalla Francia, e soprattutto dall’ONU. L’Egitto ha dimostrato di essere in grado di parlare sia con Israele che con Hamas, capacità sulla quale punterà la comunità internazionale per delineare, se possibile, il futuro della tregua, della ricostruzione di Gaza e delle garanzie da offrire a Israele.

Ma dietro questo ruolo dell’Egitto, sostenuto dal Qatar, altri sono gli scenari che si muovono  sulla scena regionale. In primo luogo bisogna ricordare gli accordi di Abramo firmati, sotto l’egida degli Stati Uniti di Trump, fra Israele e alcuni Paesi arabi, Emirati arabi uniti, Bahrain, Sudan e Marocco, nello scorso settembre. Accordi che per la prima volta stabilivano un rapporto diretto con Israele soprattutto in termini economici e commerciali, auspicavano, anche se non in modo prioritario, un’intesa fra palestinesi e israeliani e guardavano, in modo particolare, all’evoluzione degli equilibri regionali fra l’Iran da una parte e l’Arabia saudita dall’altra.

Se gli accordi di Abramo volevano creare un fronte arabo in dialogo con Israele, hanno pero’ anche provocato un ulteriore divisione sullo scacchiere regionale se si considera il ruolo dell’Iran e della Turchia, Paesi schierati ambedue a fianco di Hamas. Il primo, in particolare, con le forniture di razzi e altro materiale militare, il secondo per la sua missione di difesa del terzo luogo più sacro dell’islam, ovvero la moschea di al-Aqsa della Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Il quadro mediorientale si complica ulteriormente con la prospettiva, annunciata da Biden, di rientrare al tavolo dei negoziati per l’accordo sul nucleare con l’Iran, dal quale Trump si era ritirato applicando una politica della massima pressione.

Un contesto a dir poco complesso e in fragilissimo equilibrio. Gli Stati Uniti, malgrado un’iniziale reticenza e una situazione non proprio favorevole dovuta alla politica di Trump, sono rientrati in Medio Oriente con l’obiettivo di rinsaldare la tregua e di ricostruire le loro relazioni con i Palestinesi. Il Segretario di Stato Blinken, oltre ad annunciare un aiuto finanziario per la ricostruzione di Gaza, ha ribadito la posizione degli Stati Uniti per una soluzione a due Stati.

 L’Unione Europea è stata alquanto discreta sul conflitto israelo-palestinese, limitandosi a chiedere un cessate il fuoco, ma non potrà ignorare a lungo le sfide che attraversano l’intero Medio Oriente,  alle quali è appunto legato anche il futuro e la soluzione di questo  doloroso conflitto. 

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