Questi ultimi mesi, in cui l’attenzione della comunità internazionale era completamente rivolta agli avvenimenti in Ucraina e Crimea, hanno segnato ancora una volta la difficoltà di riavviare negoziati di pace fra Israele e Palestina. Ad un punto morto da tre anni, il Segretario di Stato americano John Kerry aveva tentato di rianimarli nel luglio scorso, concedendo alle parti un lasso di tempo di nove mesi per ridisegnare un “accordo quadro” che gettasse le basi per la creazione di uno Stato palestinese e affrontasse i grandi nodi delle loro relazioni future: le frontiere, le colonie, i rifugiati, lo statuto di Gerusalemme e la sicurezza.
Sono nodi che si trascinano da sempre, che hanno sempre fatto parte di un qualsiasi tentativo di negoziato nella prospettiva, dichiarata nelle intenzioni della comunità internazionale, di sostenere la creazione di due Stati. Ma anche nodi diventati sempre più difficili da risolvere, visto il crescendo negli anni di reciproca ostilità e sfiducia. Ormai mancano pochi giorni alla fine di aprile, data fissata per raggiungere un accordo di base, e i risultati raggiunti finora non lasciano molto spazio alle speranze. La miglior prospettiva in vista è solo quella di un prolungamento dei negoziati, un modo per evitare di identificare, da un punto di vista diplomatico, la responsabilità di quest’ennesimo stallo e insuccesso.
Tra nuovi ostacoli ed esigenze sempre seminati nei processi di pace, oggi è la decisione di Israele di sospendere la concordata liberazione di prigionieri palestinesi, l’annuncio della costruzione di nuovi alloggi a Gerusalemme Est e soprattutto la richiesta che i Palestinesi riconoscano Israele come Stato ebraico che ha inceppato di nuovo il dialogo. Di fronte a questa situazione, Mahmoud Abbas aveva poche alternative e ha deciso di proseguire sulla strada del riconoscimento della Palestina attraverso l’adesione a Trattati internazionali, alle Convenzioni di Ginevra e alla Corte penale internazionale, come aveva già fatto nel 2011 con il riconoscimento da parte dell’UNESCO e nel 2012 all’Assemblea generale dell’ONU. Una strategia e un’iniziativa questa che irrita non poco Israele, che aveva esplicitamente chiesto, per riavviare i negoziati di pace del luglio scorso, l’astensione da parte palestinese di proseguire su questa strada. Infatti, con la prospettiva di poter aderire, in particolare, ai Trattati internazionali che fissano le regole di protezione delle persone in caso di conflitto armato e d’occupazione, i Palestinesi sperano di poter adire la Corte penale internazionale per le continue occupazioni dei territori palestinesi da parte di Israele, chiaramente contrarie al diritto internazionale e condizione essenziale perché il processo di pace possa approdare ad un minimo risultato. Non si tratta tuttavia da parte dei Palestinesi di fare pressione solo su Israele ma è un chiaro messaggio a tutta la comunità internazionale per denunciare il fatto che la via classica dei negoziati non porterà mai, da sola, alla pace.
Intanto sale la tensione nella regione con ripetuti lanci di razzi da Gaza e risposte dell’aviazione israeliana. Una prova che, purtroppo, per il momento si sentono molto più le voci delle armi che non quelle della pace, del dialogo costruttivo e del rispetto reciproco di due popoli che vivono sì sullo stesso territorio, ma non godono degli stessi diritti.