Salperà da Porto la politica sociale UE?

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Si è tenuto in fine settimana a Porto un Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo con le Istituzioni comunitarie sulle prospettive di sviluppo delle politiche sociali in Europa, in particolare per tenere conto del pesante impatto della pandemia sulle condizioni di vita e di lavoro nel continente.

L’attenzione dei media si è concentrata molto sul dibattito sollevato dalla dichiarazione del presidente USA, Joe Biden, in favore di una revisione dei vincoli che proteggono i brevetti – in questo caso dei vaccini – con la conseguenza di non proteggere la salute dei cittadini. L’argomento, sul quale bisognerà ritornare, è finito sul tavolo dei responsabili europei e ha registrato posizionamenti divergenti: aperto al confronto quello della Commissione, prudenti ma disponibili al dialogo Italia e Francia, piuttosto contraria la Germania con Angela Merkel, alle prese con una difficile transizione politica alla vigilia delle elezioni di settembre.

Ma altri importanti temi erano all’ordine del giorno del Vertice di Porto, promosso dal Portogallo che esercita la presidenza semestrale di turno, prima di cedere il testimone nel secondo semestre dell’anno alla Slovenia. 

In estrema sintesi si trattava di valutare come procedere per sviluppare convergenti politiche sociali europee, al plurale, dentro un quadro coordinato comunitario. Ed è in questo rapporto tra le politiche nazionali e quella europea il quadro che consente di valutare gli esiti, non proprio esaltanti, del Vertice di Porto. Perché anche le politiche sociali, come altre  (fisco, politica estera e di difesa e sicurezza, in particolare), non sono di competenza europea e l’UE non può ad oggi andare oltre iniziative di coordinamento, in alcuni casi spingendosi fino alla proposta di direttive, una sorta di leggi-quadro europee, da consegnare al tavolo del Consiglio dei governi nazionali, affrontandone gli interessi divergenti, non solo economici ma spesso anche elettorali.

A Porto lo si è constatato chiaramente nel caso della redazione della dichiarazione finale, niente di più di un impegno politico, a proposito della parità di genere, formulazione che Polonia ed Ungheria si sono rifiutati di sottoscrivere perché ritenuta incompatibile con la loro concezione della famiglia. Un ulteriore caso di dissenso di questi due Paesi rispetto alla stragrande maggioranza degli altri Paesi UE che sta minandone la coesione politica e annuncia tensioni che prima o poi dovranno essere affrontate e non solo con lo strumento, efficace ma riduttivo, del bilancio comunitario.

Questo ennesimo conflitto ha non poco oscurato altri temi sul tavolo, come l’attivazione del “Pilastro europeo dei diritti sociali” con i nuovi obiettivi per il tasso di occupazione, portato al 78% per il 2030 rispetto al 73% prima della pandemia (in Italia è oggi del 62,6%), la riduzione di almeno 15 milioni delle persone in povertà e due importanti proposte di direttiva, quella sul salario minimo e quella sulla trasparenza salariale. Sulla prima proposta si sono registrate posizioni distanti tra Paesi del nord e  dell’est, piuttosto contrari, e quelli del sud; sulla seconda non si tratta semplicemente di un problema tecnico, ma di uno strumento per tutelare la parità di genere e  rimediare alle disuguaglianze retributive tra uomini e donne per uno stesso lavoro.

In questo contesto di debole iniziativa UE in materia di politica sociale, nonostante il Piano di azione adottato nel marzo 2020, si registrano segnali positivi di un diffuso rilancio in Europa della contrattazione sindacale, spesso però con rapporti di forza sfavorevoli con le controparti, quando non vincolate da un quadro giuridico vincolante, quali sarebbero le direttive europee.

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