Pronto Bruxelles, qui Trump: c’è qualcuno? 

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Il voto americano di inizio novembre ha allargato la distanza tra le due sponde dell’Atlantico e c’è da chiedersi come comunicheranno, e con quali interlocutori, i “due Occidenti” tra loro tradizionalmente alleati.

Vengono in mente la perfida ironia di Henry Kissinger, quando si chiedeva quale fosse il numero di telefono del responsabile europeo da chiamare in caso di necessità. Sembra che quella battuta crudele valga ancora oggi, ricambiata in parte adesso anche dalla confusione nella futura amministrazione americana in corso di allestimento a Washington. 

Non è il momento per l’UE di sottovalutare quello che le accade in casa nella definizione in corso della “governance” comunitaria, ancora incerta a oltre cinque mesi dalle elezioni del Parlamento europeo di inizio giugno.

A luglio l’Unione Europea aveva insediato per due anni e mezzo alla presidenza del Parlamento la maltese Roberta Metsola e il portoghese  Antonio Costa alla presidenza del Consiglio europeo, candidando la tedesca Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea, in attesa che venissero approvati dal Parlamento i 26 commissari, uno per Paese membro, per completarne l’investitura istituzionale per i prossimi cinque anni. Era fuori da questa rosa di nomi la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, il cui mandato non rinnovabile scadrà solo nel 2027.

Parve a luglio che, nonostante qualche tensione, il Consiglio europeo e la riconfermata maggioranza di centro-sinistra al Parlamento avesse trovato una quadra, accordando la fiducia a Ursula von der Leyen, affidandole il compito di formare la squadra dei Commissari con cui lavorare.

Ma qui qualcosa si è inceppato, forse a causa anche della “abilità diabolica” (copyright Romano Prodi) con cui la candidata presidente ha disegnato la sua squadra e per le turbolenze che ne sono seguite al Parlamento europeo, epicentro in questi giorni di sciami sismici che qualcuno teme possano essere all’origine di uno smottamento politico, se non addirittura istituzionale. 

Raccontato in estrema sintesi, l’epicentro in questione risiede nel tentativo, nemmeno tanto occulto, di Ursula von der Leyen e della sua famiglia politica di provenienza, il Partito popolare europeo (PPE) a dominante tedesca, di ampliare a destra la maggioranza concordata a luglio, in particolare verso il Gruppo dei conservatori, dove siedono i rappresentanti di Fratelli d’Italia, ma senza impedirsi il suo partito di andare anche oltre verso destre estreme, come appena avvenuto.

Questa rottura dei patti di Ursula von der Leyen con la maggioranza ha tenuto sospeso il processo di approvazione dei Commissari che dovranno affrontare un voto collegiale decisivo del Parlamento europeo il 27 novembre, per consentire alla Commissione di entrare il funzione il 1° dicembre, pena un suo rinvio al prossimo anno.

A fronte di quello che capita nel mondo, dopo le elezioni USA e alla vigilia di un possibile avvio di soluzione alla guerra in Ucraina, l’Unione Europea è appesa a leadership incerte, tanto nella Commissione che nel Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo, con la Germania in crisi politica e la Francia con un governo fragile, non in grado di svolgere quel ruolo-guida che fu prezioso in passato. 

Né sembra probabile che lo possa fare l’Italia con un governo diviso sulla politica europea e oggi il bilico tra un’atlantismo sospetto e un europeismo segnato da costanti ambiguità. Una situazione bloccata che spiega le nuove ambizioni che stanno manifestando, in modi diversi, Spagna e Polonia. 

Il risultato provvisorio è l’assenza per gli USA di un interlocutore europeo autorevole, aprendo a Trump la strada per più facili rapporti bilaterali con i singoli Paesi membri UE. 

Alla fine, per il vecchio-nuovo presidente USA sarà un regalo non sapere a chi telefonare a Bruxelles, sempre che con Bruxelles voglia parlare.

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