Povertà   economica ed esclusione sociale: i dati Eurostat.

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A pochi giorni dal Vertice in cui i Capi di Stato e di Governo discuteranno di modello sociale europeo e di futuro dell’Europa meritano qualche attenzione i dati resi pubblici da Eurostat nel documento «Povertà   Economica ed esclusione sociale nell’Ue a 25»
Prima di scorrere rapidamente le cifre esposte dall’Istituto di Statistica europeo è opportuno soffermarsi su una questione metodologica e su una precisazione terminologica
Dal punto di vista metodologico non si puಠnon sottolineare che, per quanto riguarda gli indicatori di esclusione sociale e povertà   e le modalità   di raccolta dei dati, siamo «a metà   del guado» nel passaggio dal PCM (Panel Communautaire des Mà©nages) che è stata la principale fonte di dati per il periodo 1994 – 2001 al EU -SILC (Eropean Union Statistic Income and Live Condition) che comprende un numero più elevato di indicatori, maggiore frequenza e differente calendarizzazione nella raccolta dei dati, integrazione tra dati di fonti differenti.
Le prime statistiche complete del sistema EU – SILC saranno disponibili a dicembre 2006; in questa fase di transizione Eurostat fa riferimento ai dati derivati dalle fonti statistiche nazionali, per natura eterogenei e non sempre comparabili per anno di riferimento, scelta e costruzione degli indicatori, tecniche di campionamento utilizzate. I dati esposti nel documento sono, comunque, preziosi per un quadro generale sulla povertà   e l’esclusione sociale nell’Europa a 25 rappresentando il frutto di un paziente lavoro di armonizzazione statistica e concettuale.
Per quanto riguarda la terminologia segnaliamo che statisticamente tutti gli indicatori di povertà   basati sul reddito assumono come valore di riferimento il reddito mediano cioè Il valore di reddito situato esattamente a metà   in un’ipotetica scala lungo la quale si collocano tutti i valori fatti registrare dal reddito degli individui di una popolazione di riferimento.
Le statistiche economiche nazionali ed europee definiscono povere tutte quelle persone che vivono in famiglie in cui il reddito disponibile è inferiore al 60% del reddito mediano nazionale; dal momento, perಠche la soglia è definita in maniera convenzionale e che un reddito inferiore a questa soglia non è condizione nà© necessaria nà© sufficiente è più corretto parlare di rischio di povertà   anzichà© di povertà   tout court . Sulla base di questo criterio nel 2003 era a rischio di povertà   il 16% della popolazione Europea (Ue a 15). Questo dato tradotto in valore assoluto e opportunamente rapportato alla popolazione dell’Unione allargata significa che oggi sono a rischio di povertà   72 milioni di cittadini europei.
In termini percentuali si registrano differenze anche significative: i Paesi in cui il rischio di povertà   è più elevato sono la Slovacchia l’Irlanda, la Grecia, il Portogallo, l’Italia la Spagna, il Regno Unito e l’Estonia, con valori che oscillano tra il 18 e il 21%; in Paesi quali Repubblica Ceca, Lussemburgo, Ungheria, Norvegia, Finlandia, Svezia, Danimarca, Francia, Olanda e Austria il tasso di povertà   fa registrare valori compresi tra l’8 e il 12% ; tutti gli altri Stati membri si collocano in una posizione intermedia tra questi due gruppi.
Il dato relativo al reddito è parziale perchà© non rende giustizia della maggiore precarietà   delle condizioni di vita nei nuovi Stati membri e nei Paesi candidati dove il potere d’acquisto è decisamente più basso che nel resto d’Europa. Secondo Eurostat, da una lettura simultanea dei dati relativi al reddito e di quelli riguardanti il potere di acquisto in nove dei dieci Stati entrati nell’Ue con l’allargamento del primo maggio 2004, il rischio di povertà   è più elevato rispetto alla media calcolata sull’Europa a 25
Un altro indicatore utile per misurare il livello di diffusione e gravità   del fenomeno povertà   lo «Scarto di rischio» che esprime in maniera sintetica la distanza tra il reddito dei poveri e il limite del 60% del reddito mediano della popolazione di riferimento; nel 2003 tale distanza era del 22% con le consuete oscillazioni tra diversi Stati membri: Slovacchia e Grecia hanno fatto registrare distanze superiori alla media europea mentre Repubblica Ceca, Danimarca e Finlandia fanno registrare scarti più contenuti rispetto al dato Ue .
Gli ultimi indicatori forniti da Erostat nel rapporto recentemente pubblicato sono quelli relativi alla distribuzione del reddito e all’impatto dei «trasferimenti sociali» cioè dei contributi o degli emolumenti che lo Stato o gli enti locali distribuiscono ai cittadini e alle famiglie.
La distribuzione fa riferimento al coefficiente di concentrazione che è calcolato in termini percentuali e sarebbe pari a zero se tutti gli individui ricevessero la stessa quantità   del reddito nazionale e pari al 100% se tutto il reddito nazionale fosse incamerato da una sola persona. Nel 2003 il coefficiente di concentrazione calcolato sull’UE a 25 era del 29% con coefficienti nazionali oscillanti tra il 22% della Slovenia e il 35% del Regno Unito; i coefficienti di concentrazione registrati in quelli che oggi sono i nuovi Stati membri erano già   nel 2003 prossimi al valore registrato nell’Ue a 15.
L’impatto dei «trasferimenti» sociali viene valutato attraverso il confronto del tasso reale di rischio di povertà   con il tasso calcolato in assenza di trasferimenti (situazione ipotetica). Le elaborazioni Eurostat dimostrano che i trasferimenti sociali hanno un ruolo chiave nella redistribuzione del reddito e contribuiscono a ridurre sensibilmente il numero delle persone a rischio di povertà   (da un ipotetico 40% al reale 16%).
Alla vigilia del summit europeo di cui si è detto in apertura hanno un peso particolare le parole che Eurostat dedica alle pensioni di anzianità   e di vecchiaia la cui funzione, si legge nel documento,»non è quella di ridistribuire i redditi tra gli individui ma di distribuirli lungo il ciclo di vita». L’ impatto delle sole pensioni di anzianità   e di vecchiaia è dunque molto forte e le indicazioni d Eurostat non potranno non ravvivare un dibattito all’interno del quale la riforma e la ristrutturazione del sistema pensionistico è indicata da più parti come una delle possibili vie d’uscita dalla crisi del modello sociale europeo.

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