Mercoledì 6 dicembre, Cuneo: “La strada possibile verso il disarmo nucleare”

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Siamo lieti di segnalare l’incontro “La strada possibile verso il disarmo nucleare”, promosso dalla Diocesi di Cuneo e Fossano, dalla Carovana della Pace 2023, dal Coordinamento Pace e Disarmo di Cuneo, dal Comitato “Vivere la Costituzione” e dal Coordinamento Pace e Giustizia di Fossano.

Interverrà Francesco Vignarca, Coordinatore della rete italiana “Pace e disarmo”; moderano Mario Tretola (presidente ACLI Regionale Piemonte) e Enrica Giordano (Commissione Giustizia e Pace CN – ANPI Boves).

Appuntamento alle ore 20.45 di mercoledì 6 dicembre presso il Cinema Lanteri di Cuneo.

A proposito di disarmo nucleare, riportiamo qui lo scritto di Franco Chittolina dal titolo “Unione europea: è ora di meritare il Premio Nobel per la pace 2012”.

I nuovi scenari di guerra, dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre scorso e l’esplosione del conflitto israelo-palestinese, rendono il tema del disarmo di accresciuta attualità, da declinarlo nel quadro del riarmo mondiale in corso. 

Senza dimenticare che il riarmo non ha aspettato l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, evento del febbraio 2022 che ne ha certamente accelerato il ritmo tra le grandi potenze e per i Paesi UE aderenti alla NATO, sotto la pressione degli USA di destinare alla spesa militare almeno il 2% del Prodotto interno lordo (per memoria: l’Italia è attualmente a 1,38% del PIL, con una spesa per il 2024 vicina ai 30 miliardi di euro). Una soglia verso cui, con qualche prudenza, si sta avviando la Germania, ma già ampiamente superata da Polonia e Grecia e,  anche se in misura minore, dai Paesi baltici, con la prospettiva che quando la soglia media del 2% sarà raggiunta da tutti i 23 Paesi UE membri della NATO, i costi per loro si aggireranno attorno a 60 miliardi di euro all’anno. 

In questo contesto non è senza importanza registrare che il 78,2% della produzione di armi e sistemi militari, secondo i dati dello “Stockholm international peace research institute, è controllata da Paesi membri della NATO: Francia, Germania e Italia compaiono nella lista  subito dopo USA e Russia.

Lo scorso anno la spesa militare è stata nel mondo di 2.200 miliardi di dollari (per i Paesi UE tre volte la spesa della Russia), il livello più alto raggiunto dalla fine della Guerra fredda.  Questo a fronte di un costo previsto per eliminare la fame nel mondo di 300 miliardi nei prossimi 10 anni.

Sul versante delle sole armi nucleari la Cina, con un arsenale nucleare di 500 testate punta a raddoppiarle entro il 2030, mentre sarebbero [secondo il SIPRI svedese] 12.512 le testate nucleari strategiche nel mondo (per memoria Israele ne avrebbe 60) [fonte ISPI].

Questi “strumenti di morte” comportano costi molto alti per essere “tenuti in vita”: gli Stati che detengono l’atomica spendono 146.500 euro al minuto per la manutenzione dell’arma atomica, che aggiunti alla spesa per la loro produzione provoca squilibri di spesa pubblica che finiscono per riversarsi sui bilanci nazionali con un inevitabile impatto su investimenti civili e le prestazioni del Welfare (come stiamo capendo dalla legge di bilancio italiana in corso di adozione).

Fatte queste sommarie premesse, concentriamoci adesso sul ruolo che l’Unione Europea e i suoi Stati membri, per valutare quanto possano essere considerati “attori di pace” sul fronte del disarmo, in particolare di quello nucleare nel quadro del “Trattato sulla proibizione delle armi nucleari” (TPNW).

Per far questo è necessario chiarire il profilo e le responsabilità degli attori in questione, partendo dai Paesi UE, per proseguire con l’Alleanza Atlantica e l’Unione Europea in quanto tale.

I Paesi UE mantengono intatta la loro pretesa “sovranità” in materia di difesa, una sovranità abbondantemente “presunta” per i 23 Paesi UE membri della NATO (non ne fanno parte Austria, Irlanda, Malta, in attesa la Svezia), in assenza di una auspicata “autonomia strategica” in seno all’Alleanza, rimessa sul tavolo durante la presidenza USA di Trump e rilanciata senza grandi passi avanti dopo l’invasione dell’Ucraina. 

E, per non semplificare nulla, tra questi 23 Paesi UE membri della NATO, uno – la Francia – detiene l’arma nucleare, oltre ad essere il solo Paese UE membro permanente del Consiglio di sicurezza ONU, dove è assente l’UE.

Superfluo ricordare che l’Unione Europea, in quanto ancora in gran parte una “confederazione” di Stati sovrani, priva di sostanziali competenze in materia di politica comune estera e di difesa,  non fa parte della NATO. Ma con questa l’Unione collabora attraverso i suoi Stati membri, come avviene nel quadro dello “Strumento europeo per la pace”, creato nel 2021 e piegato a veicolo di forniture militari nella guerra in corso in Ucraina. Si tratta di un nuovo strumento finanziario per “consentire all’UE di assistere i Paesi partner nelle operazioni militari di sostegno alla pace”, dotato per il periodo 2021-2027 di 5 miliardi di euro, aumentato nel marzo scorso a 8 miliardi. 

Ma veniamo adesso al “Trattato per la proibizione delle armi nucleari” (TPNW) per disegnare la mappa dei posizionamenti dei Paesi UE, dopo che il Trattato è entrato in vigore il 22 gennaio 2021 con la ratifica da parte di 50 Stati, senza che questo impedisca alla Russia e agli Stati Uniti di avere in programma la sostituzione e modernizzazione di questi arsenali di morte, come conferma ancora la decisione di Putin di qualche giorno fa di uscire dal Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT), mentre è motivo di speranza l’avvio lunedì prossimo, dopo 10 anni, di un dialogo tra USA e Cina sul controllo delle armi nucleari.

Ad oggi nessun Paese UE ha aderito al Trattato, vi assistono come “osservatori” soltanto Germania, Finlandia, Svezia e questo nonostante che alla negoziazione del Trattato abbia contribuito anche l’Unione Europea e che tra i suoi principali promotori vi fosse anche l’Austria (Paese non membro della NATO), con la presenza dei Paesi Bassi.

Semplifica il quadro delle posizioni dei Paesi UE la composizione della NATO: quelli che ne sono membri non aderiscono al Trattato, al massimo qualcuno vi assiste come osservatore, ritenendosi gli altri protetti sotto l’ombrello USA, cui via la NATO i Paesi UE hanno delegato praticamente in toto la loro posizione.

Resta la speranza che il diritto “evolutivo” dell’Unione Europea possa attivare tra le sue categorie di responsabilità politica (esclusiva, condivisa e di sostegno) almeno quest’ultima, in attesa che progredisca quella condivisa in materia di politica di difesa e sicurezza. Intanto l’UE ha confermato ancora recentemente in materia di non proliferazione e disarmo nucleare il suo approccio multilaterale alla sicurezza, confermando la sua condivisione ai tre pilasti del TNP: la non proliferazione, il disarmo nucleare e l’uso pacifico dell’energia nucleare.

Si trova traccia di questa possibile evoluzione nella Risoluzione del Parlamento europeo del 15.12.2021 dal titolo “Controllo multilaterale delle armi e delle armi di distruzione di massa, e regimi di disarmo: sfide e prospettive”. Una risoluzione che, con tutta la prudenza del caso, ricorda la partecipazione  di alcuni Stati membri UE alla negoziazione del Trattato TPNW ma anche che “non esiste una posizione del Consiglio UE sul TPNW” (considerando H). In questo contesto il Parlamento europeo “prende atto dell’entrata in vigore del TPNW e ne riconosce la visione a favore di un mondo privo di armi nucleari” e non condivide la posizione di quanti vi si oppongono (la NATO e quindi i suoi membri UE, tra gli altri) in nome della salvaguardia del TNP (Trattato sulla proliferazione nucleare) che “quale forum indispensabile atto a perseguire l’obiettivo del disarmo nucleare e garantire la stabilità internazionale e la sicurezza collettiva non deve essere indebolito” e ritiene quindi che il “TPNW non dovrebbe indebolire la sicurezza degli Stati membri”.

Francamente non una posizione particolarmente coraggiosa, ma motivata dalle mancate competenze dell’UE in quanto tale e quindi del suo Parlamento che, in materia, può solo avvalersi del suo modesto potere di iniziativa, non disponendo – come neanche il Consiglio dei ministri –  del potere di “colegislatore” che le due Istituzioni hanno in altre politiche europee. 

Questa mappa politica dei Paesi UE nei confronti del TPNW, come di altri Trattati nucleari e della corsa al riarmo, suggeriscono alcune riflessioni sull’evoluzione del tema della pace nella storia dell’Unione Europea, partendo dalla “Dichiarazione Schuman” del maggio 1950 con l’affermazione che “La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano” fino all’apertura dell’art. 3 del Trattato di Lisbona, attualmente in vigore. “L’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli”.

Dalla Dichiarazione Schuman al Trattato di Lisbona non c’è solo una distanza di quasi 75 anni, ma anche un diverso approccio al tema della pace. Nel 1950, all’indomani della Seconda guerra mondiale, la pace era vissuta come l’orizzonte di riferimento da avvicinare con grandi sforzi creativi, come lo sarebbe stato nel 1951 con la creazione della CECA e poi con il tentativo, non riuscito, della creazione nel 1954 della Comunità europea della difesa (CED) e progressivamente con il percorso della riunificazione continentale di questo inizio secolo. 

Un approccio meno volontarista lo tradisce invece il Trattato di Lisbona con quel riferimento alla promozione della pace coniugata con “il benessere dei suoi popoli”, come se la pace non fosse una valore universale e non un privilegio per pochi.

E come un suo “privilegio” l’Unione ha vissuto via via il valore della pace, garantendosi una lunga “tregua” casalinga, ma incapace di promuoverla al di là dei suoi confini, come avvenuto nel caso delle guerre nella ex-Yugoslavia, al punto che la firma dell’Accordo di pace sarebbe stato propiziato dagli USA e  firmato nel 1995 nella base militare di Dayton, nell’Ohio, segnando il clamoroso fallimento della diplomazia europea.

Tutto questo non ha impedito all’UE di installarsi in un comodo contesto di pace interna, delegando ad altri attori la sua sicurezza e pagando il prezzo delle pretese sovranità nazionali dei suoi Paesi membri. Tra questi anche l’Italia, dimenticando l’art. 11 della sua Costituzione che prevede che l’Italia consenta “alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia”. 

Significativa a questo proposito la Risoluzione della Commissione Affari esteri e comunitari della Camera del 12 luglio 2023 che, con riferimento al TPNW, impegna il governo a “continuare e proseguire con rinnovata intensità gli sforzi verso l’obiettivo di un mondo libero dalle armi nucleari, rafforzando il protagonismo della diplomazia italiana in tal senso ed articolando proposte concrete e condivise soprattutto in ambito di Unione Europea” e a continuare a valutare, in questo contesto, “compatibilmente con gli impegni assunti in sede di Alleanza atlantica e con l’orientamento degli altri alleati, possibili azioni di avvicinamento ad alcuni dei contenuti del Trattato TNPW, in particolare per quanto riguarda “Assistenza alle vittime e risanamento ambientale”.

Basterebbe una lettura attenta a queste formulazioni “acrobatiche” per capire quanto grande sia l’impotenza delle nostre Istituzioni democratiche, nazionali ed europee, ad affrontare un tema di cui sono titolari di gran lunga prevalenti altri attori mondiali. 

A questo si aggiunge l’impotenza anche di altre Istituzioni mondiali come l’ONU e il Tribunale Penale dell’Aja, nell’attuale contesto di logoramento del diritto internazionale.

Ma non è un motivo per non risvegliare l’Unione Europea da un sonno che dura da settant’anni, illusa forse di quel Nobel per la pace del 2012 che, a oltre 10 anni di distanza, deve ancora meritare, con uno “sforzo creativo, proporzionale ai pericoli che la minacciano”.

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