
L’Unione Europea è un singolare esempio di una “democrazia tra le nazioni”, un laboratorio che coniuga al suo interno la verifica del consenso popolare tanto a livello comunitario, come nel caso delle elezioni ogni cinque anni del Parlamento europeo, che a livello nazionale, con consultazioni elettorali alternate nei diversi Paesi UE, tenuto conto anche della vita spesso precaria della politica a livello nazionale.
Avviene così che, a diverso titolo, i cittadini europei siano chiamati alle urne con cadenze particolarmente frequenti, consentendo così di valutare quasi giorno dopo giorno lo stato di salute delle democrazie nell’UE ai diversi livelli.
Poco meno di un anno fa è toccato all’elezione del Parlamento europeo, con la partecipazione al voto di appena un elettore su due (ancora meno in Italia, con solo il 48% di votanti), registrando una crescita contenuta delle destre e una stentata tenuta del centro-sinistra, detentore adesso di una fragile maggioranza nel Parlamento di Strasburgo.
Altre elezioni importanti sono intervenute nel frattempo a livello nazionale, la più importante politicamente quella per il Parlamento tedesco lo scorso febbraio, con una vittoria del centro destra, un indebolimento della sinistra e la clamorosa affermazione del partito con nostalgie naziste di Alternativa per la Germania (AFD). Ne è risultata una coalizione di governo tra centro destra e socialisti, anche qui non particolarmente solida, con il passaggio del timone alla Cancelleria di Berlino dei cristiano-democratici di Friederich Merz.
Domenica scorsa sono andati alle urne i cittadini di tre Paesi, di diverso peso demografico e politico, ma comunque rilevanti per il futuro europeo, in particolare nel caso del primo turno delle elezioni presidenziali in Polonia e del ballottaggio presidenziale in Romania, insieme con le elezioni politiche – le terze in tre anni – in Portogallo.
Vista la loro collocazione geografica a ridosso della Russia e i loro primi vent’anni di adesione all’Unione Europea, le consultazioni elettorali polacche e rumene meritano un’attenzione particolare per l’impatto che potrebbe derivarne anche per l’Unione Europea.
La Polonia, liberatasi nell’ottobre del 2023 di un governo di destra anti-europeo, ha da allora un governo “europeista” di centro-sinistra guidato dall’ex-presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ma in contrasto permanente con il presidente Andrzey Duda, creatura del precedente regime e dotato di ampi poteri. Toccherà a queste elezioni provare a rimettere in fase i due vertici dello Stato e consentire alla Polonia di progredire più speditamente verso il processo di integrazione europea. Domenica scorsa il primo turno ha confermato le speranze nel successo del candidato europeista, ma sarà bene attendere il ballottaggio del prossimo 1° giugno prima di cantare vittoria.
La Romania, a sua volta, era reduce da una complessa vicenda elettorale che aveva visto annullato dalla Corte costituzionale il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali del novembre scorso per presunte interferenze esterne in favore di un personaggio di estrema destra, praticamente sconosciuto fino ad allora. La ripetizione del primo turno il 4 maggio scorso aveva dato oltre il 40% dei consensi all’ultra-nazionalista George Simion, sostenuto vistosamente anche da Giorgia Meloni, avviandolo verso un ballottaggio il cui esito positivo avrebbe pesato sul futuro europeo della Romania, oltre che sulla sua posizione nella NATO. Fortunatamente non è andata così perché domenica ha prevalso nettamente il candidato europeista e a Bruxelles, tanto nei palazzi UE che in quelli della NATO, hanno tirato un sospiro di sollievo.
Sospiro di sollievo mancato invece in provenienza dal Portogallo dove le destre, compresa quella estrema, hanno segnato punti importanti, ricordando così all’Unione Europea che i populismi nazionalisti non accennano a ridursi, come si avverte chiaramente anche nella politica italiana.