Le responsabilità della resa europea a Trump

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All’indomani dell’accordo tra USA e Unione Europea sui dazi, prima ancora di conoscerne gli incerti contenuti e le reali conseguenze, si è scatenata la caccia al colpevole della resa alla prepotenza di Donal Trump.

Inevitabile che il primo bersaglio sia stata l’Unione Europea, in particolare nella persona della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che aveva in carico il negoziato, dimenticando le responsabilità di altre Istituzioni UE e dei 27 governi nazionali cui spetterà l’approvazione dell’intesa da raggiungere con un voto a maggioranza.

Premesso che questa vicenda negoziale non è del tutto conclusa, vista anche l’imprevedibilità del contraente americano, e che sorprese non sono escluse a proposito di altre presenze sul banco degli imputati, si può approfittare di questa provvisoria tregua per individuare meglio le responsabilità, risalendo lungo la storia dell’Unione Europea per valutarne punti di forza e di debolezza all’origine degli esiti recenti.

Nata negli anni ‘50, con il nome ambizioso di “Comunità europea”, l’UE ha sviluppato negli anni il suo progetto di abbattere le frontiere interne e promuovere la libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali, progredendovi significativamente nel corso dell’ultimo decennio del secolo scorso, nonostante permangano ancora importanti residui di “dazi interni”, come denunciato nel Rapporto Draghi del 2024. Contemporaneamente, sul versante esterno l’Unione era stata una protagonista nella progressiva riduzione dei dazi negli scambi internazionali, operando attivamente nelle istituzioni multilaterali competenti in materia.

Negli ultimi anni il quadro geopolitico era andato mutando con l’emergere di nuovi protagonisti del commercio internazionale, mentre al suo interno l’UE registrava una progressiva involuzione di stampo intergovernativo con il ritorno dell’ossessione delle frontiere da proteggere, presunte “identità nazionali” da difendere e gli interessi della esaltata “nazione” da salvaguardare, indebolendo progressivamente la coesione economica e sociale tra Paesi membri cresciuti di numero e con interessi divergenti.

Al Primo ministro ungherese Viktor Orban, primo sabotatore della coesione politica europea, secondo il quale “Trump si è mangiato Von der Leyen a colazione”, basterebbe ricordargli quanta “comunità” si è già mangiato lui facendo gli interessi suoi, lasciando pochi resti sul tavolo.

Il problema è che di Orban ce n’è più di uno nell’UE, come una sua amica delle nostre parti, più astuta ma non si sa quanto affidabile, ma anche altri, chi tenace a lavorare l’UE ai fianchi, chi pronto a pugnalarla alle spalle, chi abile a far prevalere i propri interessi quando si è la più forte economia europea o chi, politicamente ed e comicamente indebolito, ma orgoglioso della propria sovranità nazionale, protetta dalla forza nucleare.

Viene quindi da lontano la disfatta dell’UE nell’aspra contesa dei dazi, ma questo non significa che non vi siano responsabilità dei negoziatori di oggi, mandati disarmati allo scontro nonostante qualche buona carta avessero da giocare, con Ursula von der Leyen troppo sottomessa alla sua nuova maggioranza di centro-destra e inchinata di fronte a Trump.

Inerme lo era il plotone di negoziatori perché non sufficientemente protetto alle spalle dal coraggio politico e dalla solidarietà degli Stati maggiori, europei e nazionali, e perché a fronte della prepotenza americana i negoziatori si presentavano come adepti alla cultura delle regole e del dialogo, ancora interpreti di un sistema multilaterale che non esiste più e dove è guerra di tutti contro tutti.

Guerra anche militare, che stava al tavolo negoziale come un convitato di pietra, perché la mancata intesa commerciale con gli USA poteva peggiorare l’esito del conflitto della Russia con l’Ucraina, precipitando i tempi della resa. Ed è anche per allontanare l’incubo di una resa politica futura che l’Unione ha finito per accettare oggi una resa commerciale.

Niente da festeggiare quindi, ma molto da imparare da questa sconfitta, figlia di molte altre nella storia dell’Unione, come quando rinunciò alla Comunità della difesa e al progetto di Costituzione europea, quando perse credibilità nella crisi greca, quando creò l’euro senza affiancarlo progressivamente con un’economia e una fiscalità comune e quando si aprì ad est senza chiudere a spinte disgregatrici e a derive che mettevano a rischio la democrazia.

Senza contare quanto troppo a lungo si è piegata alla prepotenza di Trump sul fronte del riarmo e perdendo l’onore nella vicenda palestinese.

Sì, l’Unione Europea ha perso una battaglia importante, i suoi generali non hanno brillato per tattica e ancor meno per strategia, con un’attenuante: che sono andati allo scontro come un’armata Brancaleone, contro un leone feroce e senza regole. E con un calcolo e una speranza: che tra non molto lo scenario politico ed economico negli USA possa cambiare.

Ma anche sperando noi che, prima possibile, possa cambiare lo scenario europeo, dove qualcuno potrebbe interrogarsi sulle proprie responsabilità e altri mettere mano a ricostruire dalle fondamenta una nuova Unione Europea.

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