Riconquistare il Paese e il potere in pochi giorni dopo 20 anni di guerra non è un’impresa da poco. Il 15 agosto scorso, all’annuncio del ritiro definitivo degli americani e delle altre forze della NATO, i talebani sono entrati a Kabul, senza incontrare resistenza.
La rapidità dell’impresa e le oscure prospettive aperte dal ritorno dei fondamentalisti islamici hanno messo sotto choc l’intera comunità internazionale e terrorizzato gran parte della popolazione, ancora memore di un potere che, tra il 1996 e il 2001, aveva improntato la vita pubblica e politica sulla sharia, ovvero su rigidi principi religiosi islamici, colpendo in particolare la libertà delle donne.
Ed è proprio nel 2001, con l’attacco terroristico alle Torri gemelle di New York e l’immediata risposta della NATO che attiva l’articolo 5 del Trattato e coinvolge tutti i Paesi membri nel sostegno agli Stati Uniti feriti, che inizia una nuova discutibile guerra contro l’Afghanistan e i talebani che rifiutano di consegnare Osama bin Laden, fondatore di Al Qaida. Una guerra dettata dall’esigenza di una risposta tempestiva all’immenso trauma subito, senza lasciare spazio a strategie e valutazioni delle possibili conseguenze.
L’Afghanistan non conosce pace da più di quarant’anni: nel 1979 inizia l’invasione sovietica con una guerra che durerà dieci anni; nel 1992 scoppia una guerra civile che si concluderà solo nel 1996 con l’arrivo al potere dei talebani. La guerra dichiarata dall’Occidente nel 2001 dopo aver cacciato i talebani, tenterà di consolidare istituzioni governative, di formare e addestrare un esercito, di coinvolgere e far crescere una società civile responsabile, il tutto in un contesto afghano estremamente complesso, che affonda le sue radici in un terreno impervio fatto di numerose etnie, di clan, di signori della guerra e soprattutto attraversato da tenaci fondamentalismi che poco hanno a che fare con prospettive di percorsi democratici. Obiettivi quindi mai raggiunti, come dimostra la facilità con la quale i talebani hanno spazzato via in pochi giorni vent’anni di presenza occidentale. Una presenza segnata tuttavia, in questi ultimi anni, dai tentativi statunitensi di negoziare il loro ritiro, negoziato concluso con i talebani stessi nel febbraio 2020 dall’Amministrazione Trump per un ritiro definitivo entro la fine di agosto 2021.
Quello che sta succedendo in questi giorni sotto gli occhi del mondo intero è la tragica conclusione di un ritorno alla casella di partenza, con la grande differenza che i talebani di oggi, anche se eredi di quelli cacciati nel 2001, sono più forti, più armati, più pericolosi e certamente più decisi a ricoprire un ruolo da interlocutori sulla scena regionale e internazionale. E la loro pericolosità è proporzionalmente misurabile alla paura che spinge tanti afghani a lasciare il proprio Paese e all’intransigenza dimostrata nel non concedere un giorno in più a Stati Uniti e NATO per andarsene entro il 31 agosto e fermare in tal modo le evacuazioni in corso degli afghani.
Sugli errori commessi dagli Occidentali e dagli Stati Uniti in particolare e sulle responsabilità di tutti in questi vent’anni, si potrebbe scrivere a lungo e sarà bene riflettere per affrontare un futuro in cui altri saranno gli attori che detteranno rapporti, cooperazione e interlocuzioni con il nuovo potere talebano a Kabul, rimescolando in tal modo le carte della geopolitica. A cominciare dalla Cina, poco sensibile al rispetto dei diritti umani, ma fortemente interessata a progredire nella sua nuova “Via della seta”, ad accedere alle ingenti risorse minerarie del Paese e pronta a dialogare con il nuovo potere di Kabul. Anche la Russia, lasciando aperti i canali di comunicazione, non è assente in questo nuovo scenario, desiderosa di giocare un possibile ruolo di mediazione sullo scacchiere regionale. Senza dimenticare le mire di Turchia e Iran al riguardo.
Intanto l’Europa e l’Occidente cercano di individuare, nella riunione del G7 a Londra, una posizione comune di fronte a questo nuovo scenario, in particolare sul rispetto dei diritti umani e sull’accoglienza umanitaria dei rifugiati; altre importanti questioni saranno anche sul tavolo del G20 che l’Italia intende riunire al più presto, come il tenore del futuro dialogo con i talebani, la transizione e l’appoggio internazionale verso un Governo di unità nazionale (se sarà possibile), la presenza di Al Qaeda e il futuro della lotta al terrorismo.