La geografia della disperazione

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Si sono fortemente intensificati in questi ultimi mesi i flussi migratori provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente e diretti, con il loro carico di disperazione, vittime e dolori sulle nostre coste, sulle prime coste dell’Europa. Nei primi mesi del 2014, secondo l’Agenzia Frontex, c’è stato un aumento dell’800% di arrivi di migranti verso l’Italia, rispetto allo stesso periodo del 2013 e già più di mille morti, una situazione che si sta aggravando nel corso del 2014, come testimoniano le drammatiche cronache di questi giorni. Sono alcuni dati recenti che testimoniano non soltanto di un vero e proprio esodo, ma anche dell’intensificarsi delle guerre e delle loro terribili conseguenze umane che da Nord a Sud scuotono buona parte del continente africano.

Punto di partenza dei migranti è la Libia, da Tripoli e ora anche dalla più lontana Bengasi, un Paese dove sembrano convergere non solo tutti i dolori di una fuga dal proprio Paese d’origine ma anche quelli generati dal fiorire di uno spietato commercio di esseri umani e da una situazione politica fuori controllo, senza stato di diritto e nelle mani di milizie, clan e tribù in violento conflitto fra loro.

Senza parlare delle situazioni di guerra che imperversano in Iraq o a Gaza, i migranti lasciano in particolare Paesi come la Siria, di cui i media danno regolari informazioni su una tragedia che dura da più di tre anni, ma vi sono altri Paesi di partenza di cui poco si parla ma dai quali si fugge da dittature, dalla violenza, dalla fame e dal terrorismo. È il caso, in particolare, dell’Eritrea, della Somalia, della Nigeria, del Sudan o dell’Etiopia.

Qualche cenno, ad esempio, sulla situazione in Eritrea aiuta a capire il perchè affrontare tutti i rischi di una fuga verso l’Europa sia la sola alternativa possibile alla sopravvivenza. Dopo l’indipendenza dall’Etiopia nel 1993 e qualche vaga speranza di democrazia e rilancio economico, il Paese cade nelle mani dell’attuale Presidente Isias Afeworki, che ha instaurato col tempo una delle più feroci dittature del continente africano, definita da molti una “prigione a cielo aperto”. Ad oggi, il Paese non ha una Costituzione, non sono ammessi partiti d’opposizione né organizzazioni della società civile, la giustizia opera in base a decreti presidenziali, le persone non possono né spostarsi né emigrare e, secondo la classifica di Reporter senza frontiere, l’Eritrea è all’ultimo posto per libertà di stampa. Ma illumina ancor di più il Rapporto 2013 di Amnesty International : ”L’arruolamento militare nazionale è rimasto obbligatorio e spesso esteso a tempo indeterminato. È rimasto obbligatorio anche l’addestramento militare per i minori. Le reclute sono state impiegate per svolgere lavori forzati. Migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici hanno continuato a essere detenuti arbitrariamente in condizioni spaventose. L’impiego di tortura e altri maltrattamenti è stato un fenomeno diffuso”. Ma il rapporto dice anche: ”Nel Paese è stata segnalata una grave situazione umanitaria a causa della continua stagnazione dell’economia. Tuttavia il settore minerario ha continuato ad espandersi con governi esteri e società private che hanno mostrato interesse nei significativi depositi auriferi, di potassa e di rame dell’Eritrea, malgrado il rischio di complicità in violazioni dei diritti umani per l’impiego del lavoro forzato nei siti minerari”.

Si tratta di uno degli esempi delle immense sfide che si affacciano ai confini meridionali dell’Europa e alle quali è necessario dare una risposta politica ed economica globale, coerente e coordinata. Una risposta che non può limitarsi, in Europa, alla solidarietà sull’emergenza profughi ma deve andare ben oltre, alla radice di tanto male, coinvolgendo insieme a tutta la comunità internazionale, le imprese e la società civile. È urgente fermare le guerre, le dittature, gli sfruttamenti e ricominciare oggi con una logica e mediazione politica di pace, soprattutto e prima di tutto a partire dalla Libia.

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