Ormai da molti mesi l’attualità ci ha abituato a concentrare l’attenzione sui confini meridionali dell’Europa, su quel Medio Oriente sconvolto dalle guerre, dal fondamentalismo islamico e dal terrorismo, dalle esasperazioni religiose e politiche tra sunniti e sciiti, dal crollo, in alcuni Paesi, delle Istituzioni e dalla fuga in massa dei suoi abitanti verso le coste dell’Europa.
L’attualità, assorbita da tali tragedie e dagli effetti tangibili che esse stanno producendo sulla tenuta politica dell’Unione Europea, non solo in termini di accoglienza dei richiedenti asilo, ma anche per quanto riguarda la sopravvivenza del sistema di Schengen e della libera circolazione all’interno delle frontiere europee, ha lasciato in ombra inquietanti turbolenze che serpeggiano alle frontiere orientali dell’Europa e in particolare nei Balcani.
In primo luogo, i Paesi dei Balcani costituiscono oggi per tanti profughi, il passaggio alternativo alla pericolosa traversata del Mar Mediterraneo, una nuova rotta che porta, ormai attraverso uno strettissimo corridoio, verso l’Europa, Germania e Austria in particolare. Ma su questa rotta che parte dalla Turchia, attraversa la Grecia e risale verso Nord, si sono alzati, in questi mesi recenti, nuove frontiere, muri, barriere e filo spinato per fermare la disperata fuga dei migranti e impedire loro di raggiungere la sicurezza e un futuro migliore. Si sono alzati muri tra la Grecia e la Macedonia, tra l’Ungheria, la Croazia e la Serbia, e, recentemente, la Slovenia ha dichiarato la sua intenzione di circondarsi di filo spinato e chiudere le sue frontiere con la Croazia.
Una situazione che si innesta su un contesto politico, istituzionale, economico e sociale ancora molto fragile e che, inevitabilmente, riporta alla memoria le recenti guerre su sfondo etnico e religioso che hanno devastato i Balcani negli anni novanta. Sono stati conflitti che, ancora oggi, segnano e pesano sugli sforzi di pacificazione, di sviluppo, di costruzione dello Stato di diritto dei vari Paesi coinvolti. E, come i migranti che oggi cercano di aprirsi un varco e di attraversarli , anche questi Paesi puntano e sperano nella vicinanza dell’Europa e in un futuro di adesione e integrazione.
Particolarmente inquietanti al riguardo sono le turbolenze che si verificano da un paio di mesi a questa parte a Pristina, dopo l’accordo concluso a Bruxelles tra Serbia e Kosovo volto a normalizzare le relazioni fra i due Paesi e, di conseguenza, a consolidare il loro avvicinamento all’Unione. In gioco c’è la spinosa questione della comunità serba nel Nord del Kosovo e la gestione di una sua maggiore autonomia all’interno dell’Amministrazione kosovara. Una questione che continua a generare forti frizioni fra i due Paesi e che rischia di minacciare, di nuovo, la stabilità regionale nel caso in cui l’accordo non venisse implementato.
Non proprio tranquilla inoltre è la situazione in Montenegro, caratterizzata da continue manifestazioni contro il Governo e la sua corrotta Amministrazione, in particolare contro il Primo Ministro Dukanovic , al potere da ben 24 anni. Inoltre, da un punto di vista geostrategico, il Montenegro è sotto la luce dei riflettori dopo essere stato invitato nel dicembre scorso ad aderire alla NATO, un invito che dovrebbe concretizzarsi già nel 2016. Tale prospettiva spinge i confini dell’Alleanza Atlantica sempre più ad Est, suscitando ulteriori irrigidimenti da parte della Russia per quanto riguarda la sua politica di sicurezza e i suoi rapporti , già alquanto tesi, con l’Europa.
Se si allarga lo sguardo, vanno infine segnalate le manifestazioni che continuano a scuotere la Macedonia con severe accuse di corruzione al Governo conservatore di Grueski, mentre più a Nord, la Repubblica Srpska, l’entità serba della Bosnia Erzegovina, rilancia nuovamente l’ipotesi secessionista referendaria.
Sono tutti segnali inquietanti che rimettono in evidenza le fratture profonde che attraversano tuttora i Balcani. La nuova sfida generata della rotta dei migranti e dalle sue conseguenze è un richiamo soprattutto per l‘Europa che non può certamente permettersi di lasciar divampare nuovi incendi alle sue immediate frontiere orientali.