Come siamo arrivati a questa terribile guerra che Putin sta muovendo all’Ucraina e all’intera Europa? Ripercorrendo i vent’anni di potere al timone della Russia, possiamo ritrovare quei segnali inquietanti che, quasi come il dipanarsi di un tenace filo rosso, ci hanno portato a questi giorni così bui e alla sua impresa più devastatrice, incomprensibile e forse inattesa da parte dell’Occidente.
Putin arriva al potere nel 2000, nove anni dopo la caduta dell’Impero sovietico e alla guida di una Russia ancora incerta politicamente su come orientarsi in una fase di dopo guerra fredda. Sono i primi anni di timido dialogo con l’Occidente e con la NATO, ma anche il periodo in cui l’Alleanza atlantica ha da poco concluso il suo intervento nella guerra in Kosovo contro la Serbia (1998-1999), una guerra che rimarrà scolpita nella memoria di Putin non solo per le motivazioni ma anche come un affronto alla stessa Russia.
Seguono gli anni in cui crollano le Torri gemelle negli Stati Uniti (2001) e in cui questi ultimi decidono (2003), con la complicità di altri paesi europei e sulla base di false presunzioni di presenza di armi chimiche, di invadere l’Iraq, altra decisione occidentale che farà riflettere Putin sulla fragilità del diritto internazionale; ed infine gli anni in cui sette Paesi appartenenti all’ex area sovietica, dopo l’adesione alla NATO, integrano l’Unione Europea (2004/2007) e aderiscono ai suoi valori di democrazia, libertà e stato di diritto. Non solo, ma alle immediate frontiere della Russia sbocciano due inedite rivoluzioni che metteranno definitivamente in allarme Putin e contribuiranno alla definizione di un strategia di presenza e controllo russo sulle antiche frontiere sovietiche: la rivoluzione delle rose in Georgia (2003) e la prima rivoluzione arancione in Ucraina (2004).
Si delinea quindi un quadro internazionale in pieno movimento, proprio nel momento in cui, all’interno del suo Paese, Putin fa i conti con l’instabilità nel Caucaso del Nord e con la seconda guerra in Cecenia, una guerra che ha condotto con ferocia e brutalità, conclusasi solo nel 2009. Ce lo ho ricordato e documentato in particolare la giornalista Anna Politkovskaja, uccisa dal regime russo nel 2006 per aver denunciato i crimini di guerra ed essersi opposta a Putin. Ma i lunghi echi separatisti della Cecenia arrivano anche nel Caucaso meridionale e risvegliano il conflitto in Georgia con le due regioni separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. E’ il primo intervento militare della Russia nel suo estero vicino, in Georgia (2008), conclusosi dopo pochi giorni con il riconoscimento dell’indipendenza delle due Repubbliche separatiste. La Georgia, nel silenzio quasi totale dell’Occidente perde circa il 20% del suo territorio e germoglia così, nella testa di Putin, la convinzione dell’impunità della violenza e del non rispetto del diritto internazionale.
A questo punto prende sempre più forma il violento percorso di guerra di Putin: nel 2014 la seconda rivoluzione in Ucraina e il desiderio di quest’ultima di avvicinarsi all’Europa vengono messi a tacere da Mosca; non solo, Putin, senza scrupoli, annette la Crimea alla Federazione russa, dà fuoco alla guerra nel Donbass e sostiene i separatisti contro l’Ucraina, mantiene viva l’instabilità nella regione sul lungo periodo e, sempre senza scrupoli, firma gli accordi di Minsk (2015) con Kiev e con la partecipazione di Francia e Germania. L’obiettivo era raggiungere una soluzione pacifica nel Donbass. Il tutto sotto l’occhio semispento dell’Occidente e dell’Europa che infliggono a Putin indolori sanzioni.
L’attivismo politico di Putin alle frontiere dell’ex impero sovietico si prolunga anche su altri scenari di guerra: in Siria in particolare, dove grazie al suo intervento militare (2015) e ai ripetuti “no” alla condanna di Bashar al Assad in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha mantenuto in vita uno spietato dittatore ridotto a governare su un cumulo di macerie.
La guerra che Putin sta muovendo in Ucraina è l’ultimo episodio di più di vent’anni di potere, un potere che conosce solo il discorso della guerra, il disprezzo per la democrazia e il dialogo diplomatico e soprattutto il disprezzo per il suo popolo, privo di libertà e di parola. Una terribile sfida ora per l’Occidente e l’Europa, chiamati ad evitare una guerra ancor più devastatrice e a trovare una pace ancora tanto lontana.