I venti della contestazione anche in Turchia

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Soffiano ormai da dieci giorni sulla Turchia i venti della contestazione. Nati con l’annuncio dell’ennesimo grande progetto immobiliare ad Istanbul che prevedeva il sacrificio del famoso Parco Gezi e l’abbattimento di 600 alberi secolari, i venti si sono velocemente propagati su quasi tutto il Paese, raccogliendo al loro passaggio le varie anime di un’opposizione al Governo del Primo Ministro Recep Erdogan e al suo partito di ispirazione islamica AKP (Giustizia e Sviluppo). In Turchia, manifestazioni di una tale portata non si erano mai viste e la violenza con la quale sono state e continuano ad essere represse ha non solo sollevato una giustificata inquietudine a livello internazionale, ma ha anche generato un movimento di solidarietà all’interno del Paese.

Erdogan guida il Paese dal 2002 ed è al suo terzo mandato dopo aver ottenuto il 50% dei consensi nel 2011. Un periodo segnato da una consistente crescita economica che ha fatto emergere una nuova classe media imprenditoriale, da una concreta mobilità sociale malgrado le persistenti differenze fra città e campagne nonché da un forte sviluppo immobiliare e turistico. Uno sviluppo economico che fino ad ora ha probabilmente messo in secondo piano e reso quasi impercettibile una deriva autoritaria e di matrice islamica del Primo Ministro e del Governo, oggi  additata e denunciata a gran voce da settori diversi  della società. Laicità, libertà di parola e di pensiero, rispetto dell’opinione pubblica, sono termini e concetti  infatti che ricorrono spesso sulla bocca dei manifestanti e nelle loro richieste di dimissioni del Primo Ministro, oggi non più considerato garante di quei valori affermati dai Padri fondatori  della Repubblica. Preoccupazione quindi di salvaguardare i valori della democrazia in un Paese in pieno sviluppo, a cavallo tra Oriente ed Occidente, e dove i giovani hanno a disposizione i social network per parlare con il mondo intero. Preoccupano infatti le misure adottate in risposta ai dettami dell’islam, il bavaglio imposto alla stampa, ma preoccupano anche i tentativi  di Erdogan di riforma della Costituzione volta a conferire ampi poteri esecutivi al Presidente. Una prospettiva quest’ultima che si iscrive nella possibilità che Erdogan possa presentarsi  alle prossime elezioni presidenziali, previste per il 2014, con tutto quello che comporta una simile riforma in materia di equilibrio dei poteri. Resta il fatto che queste manifestazioni hanno già segnato una sconfitta per Erdogan, per il suo partito e per la sua politica. Eletto finora democraticamente, tutto dipenderà, in prospettiva, da nuove elezioni e oggi, dall’ascolto che lo stesso Erdogan vorrà dare alle richieste di buona parte del suo popolo.

Infine, tutto questo avviene in un contesto geopolitico regionale molto instabile e dagli sviluppi imprevisti.  Senza futuro ormai un’adesione all’Unione Europea, malgrado le timide aperture della Francia, la Turchia di Erdogan sta cercando con grandi difficoltà una nuova strada e un nuovo ruolo in Medio Oriente. Un contesto segnato oggi in particolare dalla guerra in Siria, dall’accoglienza di numerosi rifugiati e dal recente attentato alla frontiera turco-siriana, dal dispiegamento di missili Patriot della Nato sul suo territorio, dall’Iran e dal suo programma nucleare e dall’evoluzione delle Primavere arabe.

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