Guerra in Mali e guerra all’informazione

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È improvvisamente tornata sotto i riflettori una guerra che sembrava finita e dimenticata. La barbara uccisione di due giornalisti francesi, Ghislaine Dupont e Claude Verlon, avvenuta a Kidal, nel Nord del Mali, il 2 Novembre scorso, ci ha ricordato che in quella regione la guerra non è soltanto tuttora in corso, ma, con quell’assassinio, è entrata probabilmente in una nuova e più complessa fase.
Iniziata nel gennaio 2013 con l’operazione Serval da parte della Francia, la guerra aveva ufficialmente un obiettivo, e cioè quello di rispondere alla richiesta di intervento da parte del Governo del Mali per far fronte alla possibile avanzata verso Bamako, la capitale, di gruppi islamici e terroristi formatisi nel Nord del Paese, a fianco di gruppi separatisti e indipendentisti tuareg, che non solo minacciavano la laicità dello Stato, ma anche la sua integrità territoriale. Una guerra quasi tutta francese, anche se sostenuta da due risoluzioni dell’ONU, dalla NATO, da forze africane dei Paesi amici vicini, da un lontano sostegno logistico statunitense (e italiano), combattuta con dispiego di più di 4000 uomini e munita delle più sofisticate tecnologie in uno dei teatri più impervi dell’Africa ma senz’altro di grande interesse geopolitico e geostrategico.
Il Mali confina a nord con l’Algeria con a ridosso la Libia e a Est con il Niger. La regione è ricca di uranio (il Niger ne è il quarto produttore mondiale) e la Francia ha un interesse particolare in questo settore per le sue centrali nucleari. Non solo, ma la regione è anche importante snodo di passaggio di gas e petrolio nonché via sempre più battuta per il trasporto della droga verso l’Europa. Una parte di Africa quindi dove si giocano grandi e tradizionali interessi occidentali e che, negli ultimi anni è diventata anche di grande interesse economico e diplomatico di altre potenze emergenti, in particolare la Cina.
Sono trascorsi più di dieci mesi dall’inizio di questa guerra e, per scarsità di informazioni e aggiornamenti, poco si sa di che cosa stia succedendo sul terreno. Si sa tuttavia di una prima e violenta reazione da parte di gruppi islamici e jihadisti, i quali, a pochi giorni dall’inizio della guerra, con la presa di ostaggi nel sud dell’Algeria, hanno provocato la morte di più di 40 persone. Da un punto di vista politico, la situazione in Mali sembra lungi dall’essersi stabilizzata. Le elezioni presidenziali dello scorso 28 luglio dovevano riportare il Paese, dopo il colpo di Stato del 2012, sulla via della legittimità democratica, della riconciliazione nazionale e della stabilità, soprattutto nel Nord del Paese da dove è partita la guerra. Ma le cose non sembrano andare in questa direzione.
Ed è proprio lì che sono caduti i due giornalisti francesi, desiderosi di far capire e informare che cosa succede in un territorio in cui sembra non esistere né legge, né stato di diritto. È vero era una zona pericolosa e i due giornalisti ne erano ben coscienti. Ma la loro morte conferma l’antica frase secondo la quale «nelle guerre la prima vittima è la verità» . E questa verità nascosta, questa non informazione permanente sembra aprire le prospettive di una nuova fase di un conflitto in cui la vittima principale sarà appunto il diritto all’informazione.

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