Gran Bretagna: UE SI’ o NO?

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Mancano poche ore all’azzardato referendum con il quale il Primo ministro inglese, David Cameron, ha deciso di rimettere ai cittadini di sua Maestà la decisione di rimanere a far parte dell’Unione Europea o di uscirne.

Che si tratti di un’iniziativa azzardata lo dicono le motivazioni che l’hanno originata, più legate a vicende politiche interne di un Primo ministro in difficoltà all’interno del Partito conservatore, a sua volta incalzato dagli euroscettici guidati da Nigel Farage, alla testa del Partito per l’indipendenza del Regno Unito (UKIP). Azzardato anche che venga affidato a un referendum la decisione su un tema così complesso e denso di conseguenze non solo per gli inglesi: conforta  che la nostra Costituzione, all’articolo 75, non ammetta la via referendaria per leggi riguardanti trattati internazionali.

Per meglio cogliere il significato politico di questo “azzardo” è utile fare un passo indietro, dagli anni ’50 ad oggi, per seguire la faticosa “traversata della Manica” da parte della Gran Bretagna, all’indomani della Seconda guerra mondiale, nel corso della quale l’isola si era saldata con le democrazie del Continente per contribuire in misura decisiva a mettere fine alla dittatura nazi-fascista.

Il Regno Unito – per ora ancora “unito”, nonostante la persistente volontà di indipendenza della Scozia – è stato tra i vincitori dell’ultimo conflitto mondiale: questo non gli ha impedito di vedersi sostituire dagli USA nella leadership del mondo occidentale e di vedere tramontare l’impero britannico.

In queste condizioni il Regno Unito tentò, all’inizio degli anni ’50, di associarsi alla prima nascente Comunità europea, ma non ne fu ammesso dai Padri fondatori che non ne condividevano l’esclusivo interesse per la costruzione di un libero mercato. Sarà solo nel 1973 che il Regno Unito aderirà alla CEE, senza peraltro aver cambiato significativamente il proprio progetto, lo stesso che con tenacia e abilità continua a difendere oggi, senza grandi differenze se a governarlo siano i conservatori o i laburisti.

Ai conservatori va senz’altro il merito della chiarezza, espressa senza ambiguità dal suo attuale Primo ministro, Cameron: “Restare in Europa senza tuttavia essere guidati” o, magari cercando in parte di guidarla nella posizione di “frenatori”, soprattutto per quanto riguarda il cammino verso l’Unione politica.

E’ stato l’atteggiamento dei governi britannici, di diverso colore, in questi oltre quarant’anni di riluttante partecipazione della Gran Bretagna alla Comunità europea. Poi è arrivato l’azzardo di Cameron, in coincidenza con una stagione politica difficile e anche pericolosa, per il mondo e per l’Europa. Quest’ultima stenta a uscire dalla depressione in cui è precipitata a partire dal 2008, anche con il significativo contributo del mondo finanziario anglosassone, e attraversa una crisi politica e istituzionale, fortemente alimentata dal ritorno di inquietanti nazionalismi, di cui anche il referendum inglese è a un tempo risultato e causa. Conferme in questo senso verranno probabilmente dalle prossime elezioni politiche in Spagna, Olanda e Francia.

I sondaggi, per quello che valgono, danno i due fronti referendari praticamente alla pari, ma potrebbe pesare sul voto l’assassinio della deputata laburista pro-UE, Jo Cox, vittima non solo di un estremista di destra, ma anche di una campagna elettorale sviluppatasi in una spirale di crescente drammatizzazione, come se da quel voto dipendesse il futuro del mondo. C’è cascato anche l’ineffabile presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, che ha visto in Brexit la “fine della civiltà occidentale”: perché non addirittura la “fine della storia” disinvoltamente annunciata ormai 25 anni fa da Francis Fukuyama?

Più divertita la lettura di alcuni osservatori che si sono esercitati a immaginare futuristi scenari geopolitici nel caso di una vittoria di Brexit. Due esempi, tra tanti, le due densissime ironiche pagine dedicate al tema dal serioso Le monde del 19 giugno e le note apparse in questi giorni sul sito la voce.info su possibili evoluzioni dell’UE.

Aspettiamo l’insolito verdetto popolare e vedremo dopo quali ne saranno le conseguenze: qualunque esso sarà, è probabile che sia a un tempo positivo e negativo per l’UE e per l’Italia.

Positivo per l’UE, se si risveglia, perché si libererebbe di una Paese frenatore nel suo percorso di integrazione; negativo, perché manderebbe il messaggio che dall’UE (e, per qualcuno, dall’euro) si può uscire, evento fino a poco fa nemmeno preso in considerazione, con rischi di contagio per altri Paesi membri.

L’Italia, che non sembra troppo appassionarsi alla vicenda, ha fatto i suoi conti e per bocca di Matteo Renzi fa sapere che, nel caso di un’uscita della Gran Bretagna dall’UE, le conseguenze economiche sarebbero contenute, magari sperando che le conseguenze politiche offrano al nostro Paese la possibilità di guadagnare un ruolo maggiore in quello che resterà dell’Unione Europea. Con la speranza che resista e riprenda vita la Comunità dei Paesi fondatori e di quanti vogliono muovere verso l’Unione politica: un obiettivo che, comunque vada il referendum inglese, non sarà più da condividere con i sudditi di Sua Maestà.

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