Ci dobbiamo abituare a parlare dell’Europa al plurale, anche all’interno dell’Unione Europea. Le Europe che si stanno manifestando di questi tempi sono più di una: c’è quella della “banda” di Visegrad (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca) e quella dei suoi simpatizzanti a Vienna e a Roma; c’è l’Europa ex-carolingia guidata da Germania e Francia e quella baltica e scandinava, mille miglia lontana da quella ai confini meridionali. Per completare la mappa c’è anche quella insulare a sud e a nord, quest’ultima in corso di amputazione con Brexit.
Fin qui s’intrecciano storia e geografia e non c’è molto di nuovo rispetto a quel Sacro romano impero, frammentato e litigioso, sopravvissuto per un millennio, dall’800 al 1806, grazie a un sapiente mix tra sovranità nazionali e governo imperiale, come racconta nel suo voluminoso saggio Peter Wilson (Sacro romano impero, Il Saggiatore, 2017).
Su questo sfondo geopolitico, dove sono disegnate le faglie che frammentano l’Europa, spiccano altre linee di rottura, o almeno di ritmo, tra le principali Istituzioni UE con Commissione europea e Parlamento in pressione per trovare soluzioni a problemi urgenti, come il flusso dei migranti e gli attacchi da est allo stato di diritto e un Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo che su questi temi – e su quello dei migranti in particolare – continua nella tattica del rinvio.
E’ vero che molto non c’era da aspettarsi dalla riunione, la settimana scorsa, del Consiglio europeo a Salisburgo, prudentemente convocato come “informale”: un’astuzia che non riesce però a mascherare l’assenza di passi avanti dei governi nazionali dell’UE in due giornate di lavori.
Pazienza per il negoziato Brexit, impantanato nella palude in cui galleggia il governo conservatore di Theresa May, costretta a formulare una nuova proposta, in particolare sul futuro della sensibile frontiera irlandese, con la prospettiva di un ultimo round negoziale a metà novembre, per non mancare rovinosamente un accordo con l’UE alla scadenza del 29 marzo 2019.
Più insopportabile invece l’ennesimo rinvio di uno straccio di intesa, non solo sulla riforma dell’Accordo di Dublino, rinviato alle calende greche, ma almeno sulla ridistribuzione dei migranti che approdano vivi – molti di loro muoiono prima – sulle sponde dell’Europa, non solo in Italia, ma anche in Grecia e in Spagna. Gli scambi a Salisburgo hanno sfiorato, se non sforato, i livelli di decenza quando è stata avanzata la proposta di scambiare la disponibilità all’accoglienza con un balzello da pagare per ogni migrante accolto da parte di chi si rifiuta di accogliere. Un’ipotesi che per un momento è sembrata praticabile al facente funzione Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, salvo poi rimangiarsela quando la proposta è stata spedita al mittente da Angela Merkel.
Molta confusione anche nella risposta all’iniziativa annunciata dalla Commissione europea di prendere in carico sul bilancio UE i costi di diecimila agenti di Frontex per rafforzare i controlli ai confini esterni dell’UE. Una proposta che era sembrata andare incontro alle ossessioni di Matteo Salvini, salvo poi accorgersi che una misura del genere rischiava di attentare alla mitica “sovranità nazionale” e anche qui il povero Conte è stato costretto a fare marcia indietro.
Quindici giorni fa a Strasburgo il Parlamento europeo aveva battuto due colpi secchi a sostegno del futuro dell’Europa; pochi giorni dopo i governi nazionali hanno fatto ancora una volta melina. A Strasburgo il governo italiano ne è uscito con una clamorosa rottura tra i suoi due azionisti di maggioranza, la settimana scorsa è tornato a casa senza risultati e senza battere un colpo. Anche per non irritare troppo i nostri partner proprio alla vigilia di un difficile varo della legge di bilancio, sulla quale in molti – dalla Commissione alla Banca centrale europea fino all’ Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) – tengono i riflettori accesi, non senza qualche fondata inquietudine.