G20: adesso dalle parole ai fatti?

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Il G20 è il club dei venti Paesi più ricchi del pianeta che da soli rappresentano l’80% della ricchezza mondiale, il 75% del commercio e che, con soltanto il 60% della popolazione del pianeta, sono responsabili del 75% del suo inquinamento. 

Nato nel 1999 come luogo di confronto tra i ministri finanziari dei 20 Paesi più sviluppati del mondo, a partire dal 2008 con la crisi economico-finanziaria si è trasformato in un appuntamento mondiale tra il Capi di Stato e di governo di quegli stessi Paesi.

In oltre trent’anni di vita non ha in genere prodotto grandi conclusioni operative, ma ha promosso un progressivo coordinamento degli orientamenti non solo economici ma anche politici, vivendo una stagione particolarmente difficile nel corso della crisi del multilateralismo provocata dalla irruzione della Presidenza Trump negli USA.

L’incontro di Roma qualche orientamento comune lo ha prodotto, anche se molto resta da fare sul fronte della salvaguardia del pianeta, sfida cui dovrà rispondere la Conferenza ONU sul clima, riunita a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre.

La presidenza italiana di turno del G20 aveva tre priorità, sintetizzate nelle tre lettere “P”: persone, pianeta e prosperità. La prima puntava a coordinare gli sforzi nella lotta contro la pandemia, la seconda ad accordarsi nella lotta al surriscaldamento climatico, la terza a rafforzare la crescita economica dopo la crisi. Su tutti e tre i fronti qualche passo è stato fatto, in attesa che alle parole seguano i fatti.

Sul versante sanitario ci si è orientati sull’obiettivo di vaccinare, entro la metà del 2022, il 70% della popolazione mondiale, rispondendo non solo a inaccettabili diseguaglianze tra Paesi ricchi e quelli poveri, ma anche per arginare i rischi di contagi che dai secondi potrebbero riversarsi sui primi.

Decisamente rilevante è stato l’accordo raggiunto per una “global minimum tax”, la tassa che le grandi multinazionali dal 2023 dovranno pagare dove operano: una decisione importante non tanto per la percentuale dell’imposizione fiscale – un modesto 15% – quanto per l’avvio di una fiscalità di dimensione internazionale che può aprire varchi verso una più equa distribuzione delle risorse a livello globale e verso una ripresa di un multilateralismo da tempo in crisi, una ripresa testimoniata anche dalla rimozione di dazi tra USA e Unione Europea.

Ma la sfida più importante era e resta senza dubbio quella del clima. A questa sfida epocale è chiamata a rispondere la Conferenza appena aperta a Glasgow: dopo gli impegni presi nel 2015 a Parigi era ora di fare un bilancio e aggiornare le future politiche ambientali. Purtroppo il bilancio non è rassicurante e sono in molti anche a dubitare che gli impegni presi – e largamente disattesi da alcuni Paesi –  siano sufficienti, come anche che siano adeguati i tempi di realizzazione previsti, in particolare la data del 2050 per l’azzeramento delle emissioni del gas serra, una scadenza che Russia, Cina ed altri vogliono rinviare di una decina d’anni.

Al G20 di Roma è stato confermato l’obiettivo adottato a Parigi di contenere entro quella data l’aumento del riscaldamento climatico sulla soglia dell’1,5% rispetto ai livelli preindustriali, ma la sua realizzazione resta ancora incerta, viste anche due assenze di rilievo, al tavolo dei Capi di stato e di governo, tanto a Roma che a Glasgow, di Putin e Xi Jinping, quando sono note le responsabilità di due grandi inquinatori planetari come la Russia e la Cina.

L’Unione Europea continua coraggiosamente a mantenersi all’avanguardia del movimento, non senza difficoltà al proprio interno, ma anche stretta tra i vincoli di una competizione economica mondiale segnata da molti Paesi inquinatori che traggono vantaggio da comportamenti meno rigorosi.

L’attesa adesso è tutta per l’esito dell’incontro nei prossimi giorni a Glasgow sul clima: sarà la prova del nove per capire se alla parole seguiranno i fatti.

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