Finalmente Brexit

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Nove mesi dopo il referendum britannico del giugno scorso, il tempo di una normale gravidanza, e finalmente Brexit è venuto alla luce. Attesa da molti, temuto da tanti, forse più dagli isolani britannici che dai continentali, la procedura di secessione del Regno Unito dall’Unione Europea entra adesso in una lunga e difficile fase negoziale dagli esiti imprevedibili.

L’avvio della procedura di divorzio, formalmente avviata il 29 marzo, è già stata preceduta nell’isola di Sua Maestà da alcuni primi scossoni. Il Parlamento della Scozia si è espresso in favore di un nuovo referendum per uscire dal Regno Unito e restare nell’UE; inquietudini serie si sono registrate nell’Irlanda del Nord e sul passaggio ai confini delle due Irlande, con la prospettiva di una possibile unificazione dei due Paesi. Altre tensioni si sono manifestate in seno alle Istituzioni britanniche, dove il Parlamento ha rivendicato il suo ruolo nel negoziato, salvo cedere poi dinanzi alle pressioni del governo di Teresa May.

Sull’altra sponda della Manica, in quella che continuerà a essere l’Unione Europea, la vicenda si è mossa molto sottotraccia, ma senza rinunciare ad affilare le armi, cominciando a sparare le prime bordate – per ora a salve – a proposito del mantenimento degli impegni di bilancio e sul rispetto dei diritti maturati dai cittadini comunitari residenti nell’isola. Nel frattempo molto si è scritto su chi avrebbe subito i danni più gravi dal divorzio annunciato, anche se la previsione unanime è che ci saranno danni per tutti dopo questa azzardata mossa britannica.

L’UE si è intanto attrezzata per una “politica di riduzione del danno”, cercando di consolidare l’unità – fortemente a rischio – tra i Ventisette: ne ha dato prova con la “Dichiarazione di Roma”, adottata all’unanimità (Polonia e Grecia comprese), senza cedere a toni ostili ma aprendo a un’Unione più flessibile, non per recuperare il Regno Unito, ormai disunito dall’UE per lungo tempo, ma per consentire ai Paesi che lo vogliono di accelerare con nuove forme di cooperazione, senza più il freno tirato dei britannici e le resistenze dei Paesi malpancisti dell’Est. Si può leggere così il passaggio centrale dei Ventisette: “Renderemo l’Unione Europea più forte e più resiliente, attraverso un’unità e una solidarietà ancora maggiore…Agendo singolarmente saremo tagliati fuori dalle dinamiche mondiali… Agiremo congiuntamente, a ritmi e intensità diversi se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato, in linea con i trattati e la sciando la porta aperta a coloro che desiderano associarsi successivamente”. Questa la rotta da seguire per il futuro di un’Europa a più velocità, difficile da costruire e governare, ma anche l’unica possibilità perché il sogno europeo sopravviva al nazional-populismo e al cammino a ritroso nella storia del continente.

Adesso, con questo viatico, ci aspettano due anni di negoziato, che dovrebbero – il condizionale è d’obbligo per un’operazione inedita come questa – concludersi nella primavera del 2019, non a caso alla vigilia delle prossime elezioni del Parlamento europeo. Il Trattato UE prevede che il negoziato possa proseguire oltre la scadenza, ma solo con l’accordo unanime dei Ventisette Paesi UE.

E’ facile prevedere che tra schermaglie procedurali e astuzie tattiche – non solo britanniche ma anche tra i Ventisette – la procedura di divorzio entrerà nel vivo non prima dell’autunno: a questo punterà, tra l’altro, l’Unione Europea per superare due test elettorali decisivi per il suo futuro, quello francese a maggio e quello tedesco a settembre.

Di qui ad allora bisognerà continuare a tenere la barca in linea di galleggiamento, sperando che dai mercati non arrivino troppe tempeste e dai Ventisette, Italia compresa, troppe furbizie di corto respiro.

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