Europa tra pace e guerra

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L’Europa ha vissuto 50 anni (1945-1991) in una relativa pace, almeno all’interno dei suoi confini.

Una pace relativa perché vissuta nel clima della “guerra fredda” e con l’alimentazione di conflitti nelle sue colonie, attorno agli anni ’60 -70.

L’inizio degli anni ’90 alla guerra fredda è succeduto un periodo di crescenti tensioni ai confini dell’Unione Europea, con la seconda guerra del Golfo (1990) e i conflitti nella ex-Jugoslavia conclusisi con la fragile “pax americana” di Dayton (1992).

Altre tensioni si sono risolte in modo più morbido: è il caso nel 1993 con la scissione pacifica della Cecoslovacchia in due Stati. Tutto questo mentre sullo sfondo, non lontano dai nostri confini, é proseguito il conflitto israelo-palestinese, focolaio per altre crescenti tensioni in Medioriente.

Il nuovo millennio si apre con l’attentato delle Torri gemelle a New York e trascina l’Europa in una guerra tuttora in corso e difficilmente arginata dai nostri confini, come hanno testimoniato gli attentati di Madrid (2004) e Londra (2005) e, più recentemente, con gli attentati a Parigi, Bruxelles, Nizza, Londra e Barcellona.

Alcuni Paesi europei hanno seguito gli USA nella guerra dichiarata alle basi dei terroristi in Afghanistan, mentre sono riesplose le tensioni tra India e Pakistan e Israele è intervenuto pesantemente nello spazio controllato dall’Autorità palestinese.

L’Europa, una parte di essa (Gran Bretagna, Italia, Spagna e Portogallo, restano fuori Francia e Germania), ha seguito nel 2003, gli USA nella sciagurata guerra in Iraq: ha così inizio un conflitto armato che, iniziato senza mandato ONU, si trascina ancora oggi, dopo aver infiammato il Medioriente.

All’Unione Europea hanno offerto una speranza le “primavere arabe” che però, salvo in Tunisia, hanno finito per generare nuove tensioni, facendo registrare  pesanti involuzioni democratiche come in Egitto o, peggio, scatenando lotte tra fazioni locali come in Libia dove Gran Bretagna e Francia sono intervenute per difendere i loro interessi e per ritrovare un ruolo nel Mediterraneo, coperti tardivamente da un confuso mandato ONU, con la totale assenza dell’Unione Europea sulla quale si riverseranno – in Italia, in particolare – crescenti flussi migratori.

Il conflitto del 2011 con la Libia è a suo modo esemplare per avere un’idea del quadro politico internazionale in occasione di un conflitto nell’area mediterranea: le operazioni militari hanno fatto riferimento a una risoluzione dell’ONU, liberamente interpretata, adottata con l’accordo esitante degli USA, un ambiguo impegno della Lega Araba e l’astensione, nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, della Russia e della Cina, cui si aggiungono Germania e India. Entra tardi nella vicenda la NATO, mentre si sono mostrati divisi, come da tradizione, i Paesi UE privi di una base giuridica per un’azione militare comune, ma soprattutto incapaci di un’intesa politica, visti i loro interessi divergenti, con un evidente imbarazzo per la Germania.

Il 2011 non era finito bene, né in Europa né altrove nel mondo: dai massacri dei cristiani in Nigeria, proseguiti nel tempo e allargatisi ad altri Paesi come recentemente in Pakistan, alla repressione sanguinosa dell’opposizione nella Siria del dittatore Assad, dalle periodiche turbolenze nei Paesi delle “primavere arabe” all’aggravamento del conflitto israelo-palestinese e alle minacce di proliferazione nucleare in Iran.

Nel 2012, ai confini dell’Europa non va molto meglio: si annunciano tensioni all’interno della Turchia, mentre nei Paesi “a vocazione europea”, come l’Ucraina, la Moldova, più difficilmente la Bielorussia, o come i Paesi del Caucaso del sud (in particolare Georgia e Armenia) guardano verso l’UE, sorvegliati da vicino dalla Russia. Più lontano dai nostri confini, la guerra in Afghanistan non sembra essere vicina a una pace duratura e si salda con altre turbolenze nel vicino Pakistan, a sua volta in tensione con l’India: entrambi i Paesi sono dotati dell’arma nucleare.

Al compimento del suo 60° anno di vita, l’Unione Europea indebolita da una crisi finanziaria e economica, diventata rapidamente una crisi sociale e politica, deve fare i conti con un bilancio modesto in materia di pace.

Se da una parte si è protetta dalla guerra al suo interno, dall’altra non si è particolarmente distinta nel promuovere la pace, nemmeno ai suoi immediati confini, in particolare nell’area mediterranea. Incapace di riprendersi dal mancato appuntamento con la Comunità europea della difesa (CED) nel 1954, “azionista di minoranza” nella NATO creata nel 1949, frenata nel processo di integrazione economica e politica dall’ingresso nella CEE della Gran Bretagna nel 1973, la CEE non coglie l’occasione della caduta del Muro di Berlino (1989) per investire i “dividendi della pace” in nuove iniziative politiche dentro e fuori casa e inciampa subito nel conflitto della ex-Jugoslavia. Il resto è storia di oggi, raccontata sopra.

E nonostante questo una sorpresa è riservata all’UE nel 2012: l’attribuzione del premio Nobel per la Pace, la sua piuttosto che quella promossa per il resto del mondo. Una sorpresa che induce a cercare le ragioni di questa nostra “pace impotente” che sta conducendo l’UE ad una pericolosa irrilevanza politica – oltre che economica- nel mondo turbolento di oggi.

Aiuta a capire le ragioni di questa pace impotente – e anche egoista –la vicenda dell’Ucraina, un Paese spaccato in due, non solo da Putin ma anche dall’incertezza dell’UE e dal ruolo della NATO. Dall’UE l’Ucraina è stata sedotta e poi abbandonata: praticamente senza reazioni l’annessione della Crimea, logorato lo strumento delle sanzioni ma apprezzabile il contrasto agli USA intenzionati ad armare l’Ucraina. Ma il problema di fondo è stato, è e sarà quello della NATO che si è allargata in Europa al ritmo dell’allargamento dell’Unione Europea, portandosi alle immediate frontiere della Russia e scatenandone la reazione con il tentativo di ampliare, se non i territori almeno l’influenza della Federazione Russa, nostalgica della perduta Unione Sovietica.

La “pacifica” UE, delegando la difesa alla NATO, continua a pagare prezzi molto alti per (inutili) eserciti nazionali e affida agli USA, azionista di maggioranza della NATO (75%) la propria fragile sovranità federale, subendone le politiche dettate da interessi che non sono quelli europei.

Il ripetersi e l’aggravarsi di conflitti armati ai confini dell’Europa sta in questi giorni riproponendo all’UE il tema, politicamente molto sensibile, della messa in cantiere di un “esercito europeo”. L’argomento è da tempo  sul tavolo del Consiglio europeo ed è stato preceduto da annunci istituzionali importanti, come nel caso di Juncker, ma anche di Donald Tusk e, con più cautela, di Angela Merkel. Tutto questo in assenza di una competenza dell’UE in materia di politica estera comune e di sicurezza, come testimoniano le difficoltà di Federica Mogherini a esprimersi a nome dell’UE.

 

LE COMPETENZE ATTUALI DELL’UE E LE PROSPETTIVE FUTURE

Oggi le competenze dell’UE in materia di politica estera e di sicurezza sono regolate dai Trattati, nel rispetto delle sovranità nazionali che non hanno ceduto in materia deleghe sostanziali alle Istituzioni comunitarie, mantenendo quindi sulla materia la regola del voto all’unanimità.

Il Trattato di Maastricht (1992) cita per la prima volta la “Politica straniera e di sicurezza comune “ (PESC) come prolungamento della cooperazione politica europea avviata nel 1969.

Gli obiettivi affidati alla PESC sono la salvaguardia dei valori comuni, gli interessi fondamentali e l’indipendenza dell’Unione Europea, il rafforzamento della sua sicurezza e di quella degli Stati membri, l’azione in favore della pace e della sicurezza internazionale, lo sviluppo e il rafforzamento della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.

Quanto alla difesa europea non si è mai tradotta nella costruzione di una difesa collettiva contro aggressori esterni, una missione affidata alla NATO, concentrandosi invece sulla gestione di crisi esterne con operazioni per il mantenimento o il ristabilimento della pace o con missioni umanitarie.

Il Trattato di Lisbona (2009) ha spostato l’accento sulla dimensione esterna della PESC adottando una clausola di difesa reciproca (art. 42 TUE e che al 42.2 parla di “una definizione progressiva di una politica comune che condurrà a una difesa comune”) e una clausola di solidarietà (art.222 TFUE), la creazione di un Alto rappresentante (non Ministro degli esteri) e di un servizio diplomatico comune.

Ad oggi, non si è andati al di là di prese di posizioni comuni, dell’elaborazione di strategie comuni (2003 e 2008) e una cooperazione più strutturata tra gli Stati. Risultati modesti che contribuiscono ad aggravare l’irrilevanza politica dell’UE sulla scena mondiale. In tale contesto di interessi divergenti tra i Paesi UE si è privilegiato il “soft power”: l’influenza sulla potenza, l’assistenza sulla forza e le alleanze rispetto all’indipendenza.

Il risultato di questa assenza di politica estera e di difesa comune si traduce anche in forti squilibri in materia di difesa tra i Paesi UE: la Gran Bretagna e la Francia (due potenze nucleari che siedono nel Consiglio di sicurezza dell’ONU) si fanno carico di metà dei costi per la difesa di un’Europa che conta cinque Stati neutrali (Austria, Cipro, Finlandia, Irlanda, Malta). E’ in questo contesto di frammentazione interna e di pericolose crisi esterne che riprendono a manifestarsi ipotesi di rafforzamento europeo della difesa, a cominciare dal varco che potrebbe aprirsi con lo strumento delle “cooperazioni rafforzate” in caso di intesa tra almeno nove Paesi UE.

Come è avvenuto con gli interventi di importanti Autorità politiche europee: per primo il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker che l’8 marzo del 2015 ha rilanciato l’idea della creazione di un esercito europeo dichiarando che “Un esercito comune farebbe comprendere alla Russia che siamo seri quando si tratta di difendere i valoro dell’Unione. Un simile esercito ci aiuterebbe a mettere a punto una politica estera e di sicurezza comune”.

Da non sottovalutare però l’apprezzamento per la proposta di Juncker da parte della allora ministra tedesca della difesa, Ursula van der Leyen che ha subito dichiarato che “questa integrazione degli eserciti, con la prospettiva di avere un giorno un esercito europeo è il mio modo di vedere il futuro”. Prudente ma aperta all’ipotesi Angela Merkel che ha fatto sapere di condividere il progetto senza tuttavia indicare un calendario per la sua realizzazione e assicurando che una tale forza sarebbe inserita nella NATO.

A questo punto c’è chi si chiede se assisteremo a un ritorno della Germania sulla scena militare europea. Perché no, se progredisse il suo ruolo in materia di politica estera, dove Angel Merkel si sta esponendo nonostante la sua opinione pubblica sia molto riservata su questo ruolo. Un po’ per non assumerne i costi e per un orientamento largamente pacifista dei cittadini tedeschi: la Germania si è chiamata fuori dalla coalizione Bush-Blair-Berlusconi-Aznar in Iraq ed è stata molto prudente nelle vicende della Libia.

E tuttavia la Germania prolunga nell’UE la sua leadership finanziaria ed economica con quella politica, cominciando con quella estera senza escludere un ruolo militare oggi prematuro. La Russia è più vicina ai suoi confini di quanto lo siano gli USA e nel 2015 ha aumentato le spese per la difesa di circa il 2%

Intanto in attesa che la proposta faccia la sua strada, l’UE ha mobilitato risorse per la ricerca sulla sicurezza e lanciato iniziative comuni per i droni, gli aerei per rifornimento, satelliti e tecnologie di cyberdifesa.

Il tema di una difesa comune europea non ha mai smesso di essere all’attenzione dell’UE, ma non è nemmeno riuscito ad approdare a risultati significativi.

Un risveglio sull’argomento è stato provocato in questi ultimi due anni dall’esplosione del terrorismo in Europa, dalla persistenza di conflitti armati ai confini dell’UE (Ucraina, Siria…) e più recentemente dall’irruzione sulla scena mondiale del nuovo Presidente USA con le forti tensioni in corso con la Corea del nord e, in questi giorni, con l’Iran a proposito dell’accordo sul contrasto alla proliferazione nucleare.

In questo clima di “vigilia di terza guerra mondiale”, l’UE sembra essersi risvegliata dal suo sonno e aver ripreso iniziativa: ne sono una recente testimonianza gli ultimi discorsi di Juncker sullo “Stato dell’Unione” (nel 2016 annunciando la creazione di un “fondo europeo per la difesa che dia un forte impulso alla ricerca e all’innovazione”, in altre parole con un  sostegno all’industria europea degli armamenti;  nel 2017 auspicando entro il 2025 una Unione europea della difesa), il recente discorso di Emmanuel Macron alla Sorbona (a inizio del prossimo decennio una “Forza comune di intervento”, un bilancio comune della difesa e una dottrina comune) con un implicito riferimento alla dichiarazione europea in occasione dei 60 anni del Trattato di Roma sulla prospettiva delle “diverse intensità” (che si può tradurre con “velocità” o “cooperazioni rafforzate”) del processo di integrazione europea.

Da sottolineare anche la recente ferma dichiarazione di Federica Mogherini in difesa dell’accordo sul nucleare con l’Iran, sottoscritto per l’UE da Francia, Gran Bretagna e Germania.

Dopo l’insuccesso della CED nel 1954 e le molte parole spese da allora, forse l’UE adesso potrebbe essere a una svolta: lo capiremo meglio nel Consiglio europeo di metà dicembre prossimo.

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