Europa, all’indomani delle guerre

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Sessantacinque anni fa, all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa si ravvedeva sulla sua follia e, a un anno di distanza dalla Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, metteva in cantiere il 18 aprile 1951 la costruzione della Comunità economica del carbone e dell’acciaio (CECA). Il progetto era quello di uomini visionari che risposero alla follia della guerra con la follia della pace: quella di mettere in comune tra popoli, da sempre tra loro belligeranti, le materie prime della guerra, quelle del carbone e dell’acciaio usate per fondere cannoni e armi e risorse aspramente contese in un’economia industriale allora strategica.

Da allora molte cose sono cambiate: carbone e acciaio hanno perso l’importanza che avevano nel secolo scorso, purtroppo però in Europa, contrariamente a quello che avevamo sperato, è tornato a incombere lo spettro della guerra. Non è una guerra come quelle del Novecento: è la guerra scatenata nei nostri Paesi dal terrorismo fondamentalista, quella che i commentatori chiamano “guerra asimmetrica”, ma che papa Francesco insiste a chiamare “Terza guerra mondiale a pezzi”, diffusa in vaste aree del mondo e che, non da ieri, colpisce anche l’Europa. Prima degli attentati di Bruxelles della settimana scorsa, c’erano stati quelli di Parigi l’anno scorso, di Madrid nel 2004 e di Londra nel 2005.

Sembra che Europa-tartaruga continui, anche su questo fronte incandescente, a distinguersi per lentezza nei movimenti e nelle decisioni.

E’ troppo sperare che, oltre dieci anni da quei primi attentati l’Europa, colpita adesso nella sua capitale, si svegli e capisca che quella della guerra è tornata ad essere una follia da affrontare con una “follia” speculare, quella della pace e delle inedite azioni necessarie per difenderla nel suo territorio e promuoverla ai suoi confini?

E’ incoraggiante che dopo aver tergiversato per anni sulla prospettiva di adottare una politica economica comune – e ci sono voluti sette anni di crisi pesante! – adesso si lavori alla creazione di un ministro delle finanze dell’Eurozona, come risulta nero su bianco nel memorandum recentemente presentato dal governo italiano.

Analogamente, dopo gli attentati di Bruxelles, circola l’idea di un ministro europeo degli interni e, inevitabilmente, seguirà quella di un ministro europeo della giustizia: magari i due da creare in ordine inverso. Meglio ancora sarebbe non procedere a pezzi e bocconi e prendere risolutamente il toro per le corna e mettere finalmente in cantiere quell’Unione politica invocata da tempo, destinataria di opportune competenze in materia di politica estera, di giustizia e di sicurezza interna, comprensiva fin da subito di concrete capacità, cominciando da quella “intelligence” che fa pericolosamente difetto all’Europa.

I “realisti” diranno che bisogna muoversi passo dopo passo, cominciando a fare alcune cose concrete. I realisti hanno ragione a proporre di muoversi, ma nel movimento conta molto la direzione e il ritmo. A metà degli anni ’50 i Padri fondatori della prima Comunità europea sapevano dove volevano andare e in pochi mesi fecero un inatteso balzo in avanti, che molti ritenevano impossibile. Si dirà che allora erano solo sei i Paesi coinvolti e non i ventotto di adesso. Ma non è scritto da nessuna parte che si debba partire tutti insieme: anche in quegli anni, altri Paesi sembravano dovessero fare parte del convoglio e vennero lasciati sulla banchina. E tra questi c’era la Gran Bretagna, che quel treno l’avrebbe preso – si fa per dire – soltanto mezzo secolo dopo, quando ormai il corpo della Comunità si era irrobustito e aveva realizzato molti dei suoi obiettivi.

A buon intenditore poche parole.

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