Ormai lo si è ripetuto fino alla noia: queste elezioni europee saranno le più importanti nella storia dell’Unione Europea, da quando nel 1979 il Parlamento di Strasburgo è stato eletto a suffragio universale diretto, oggi in un momento nel quale, per molti osservatori, si profilano scelte decisive per il futuro dell’UE, tra rischio di declino verso il passato di un’Europa delle nazioni o rimbalzo verso nuove dinamiche di integrazione, a seconda che prevalgano le forze di destra nel caso venga confermata una maggioranza politica a trazione federale.
Sono considerazioni largamente condivisibili, bisogna provare a capire perché e provare a far emergere come si muovono i giocatori nella partita in corso.
Questa si colloca a più livelli: da quello riferito al quadro politico nazionale, per misurare la distribuzione del consenso domestico al livello europeo, in riferimento tanto alla mappa politica del nuovo Parlamento che alla nuova configurazione dei futuri Vertici dell’UE.
Tralasciamo il livello locale, esposto comunque a qualche scossone politico, che già troppo ha distratto i cittadini elettori dalla vera posta in gioco, quella che ha il suo perno tra Strasburgo e Bruxelles: al Parlamento europeo dove si aspetta di capire se potrà formarsi un’aggregazione stabile di una maggioranza politica e con quali alleanze; a Bruxelles per interrogarci su chi salirà sulla tolda di comando della futura Unione.
I sondaggi dell’ultima ora raccontano, per quel che valgono, di una significativa avanzata delle forze politiche di destra e di destra estrema, di una forte flessione di liberali e verdi e di una sostanziale tenuta dei popolari europei e dei socialisti: quanto basta per lasciare con il fiato sospeso sulla nuova maggioranza, non tanto per un ribaltone rispetto al passato quanto per una possibile curvatura a destra dei popolari nella maggioranza tradizionale, sempre che questa tenga.
La prospettiva sarebbe quella di una maggioranza ad alta instabilità, relativamente fluida al momento del voto, con una geometria variabile a seconda dei temi all’ordine del giorno, come già avvenuto in passato.
Un quadro politico del genere non potrà che impattare, all’indomani del voto, sulla designazione dei candidati alle presidenze della Commissione e del Consiglio europeo da parte dei 27 Capi di Stato e di governo, chiamati a decidere a maggioranza.
Se da una parte questi grandi elettori – più potenti in questa fase di noi cittadini-elettori – dovranno “tenere conto” dell’esito elettorale, dall’altra non vi sono vincolati e potrebbero avere un più ampio margine di manovra nel concordare i futuri vertici delle Istituzioni UE, giocando sulla probabile frammentazione politica del nuovo Parlamento, cui spetterà in un secondo tempo l’approvazione della candidatura alla presidenza della Commissione.
C’è da aspettarsi che a condurre i giochi possa essere ancora una volta la coppia franco-tedesca, quella che si inventò, nel 2019 a sorpresa, Ursula von der Leyen, ma allora alla Cancelleria c’era Angela Merkel e Emmanuel Macron era in migliore salute politica di oggi, cosa che gli consentì anche di piazzare Christine Lagarde alla presidenza della Banca centrale europea fino al 2027. Adesso la coppia franco-tedesca arriva all’appuntamento con entrambi i partner indeboliti e tra loro in crescente tensione e altri sono pronti a sedersi al tavolo a “dare le carte”, come l’Italia, la Spagna e la Polonia, senza contare il nervosismo dei Paesi dell’est.
A questo punto i giochi si fanno complicati, al punto da non escludere il ricorso a un possibile “presidente straniero”, per almeno una delle due Istituzioni, forse anche per la Commissione, dove la candidatura per un nuovo mandato di Ursula von der Leyen si è indebolita negli ultimi tempi.
Sembra tutto questo un esercizio fragile di previsione e in effetti lo è, senza però dimenticare che a giugno da queste poste in gioco, tanto al Parlamento che al Consiglio europeo, dipende il futuro dell’Unione e il nostro.