E adesso la Cina è troppo vicina

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Come sono lontani i tempi in cui risuonava l’invocazione: «La Cina è vicina»! Adesso che la Cina l’abbiamo addirittura in casa, non solo con consistenti quote di immigrazione comunitaria probabilmente destinate a crescere, ma anche con quantità   crescenti di prodotti tessili che invadono i nostri mercati la musica cambia ed è venuto il momento di riconsiderare un argomento – quello del commercio internazionale – con calma e in una prospettiva di tempi medio-lunghi, senza farci prendere dal panico dell’emergenza immediata. Emergenza che sicuramente esiste, ma non è così improvvisa e con dimensioni tutto sommato contenute rispetto agli scambi globali con la Cina. Che non si tratti di un fenomeno improvviso lo avremmo dovuto capire da tempo: sono dieci anni che era stato convenuto di mettere fine all’Accordo Multifibre e al sistema di quote inventato a salvaguardia delle produzioni tessili europee ed italiane. L’Accordo è venuto a scadenza il 1° gennaio di quest’anno e ha messo in luce due fenomeni che sommati insieme hanno fatto esplodere questa non proprio imprevedibile emergenza: molte industrie europee del tessile, in particolare nei Paesi del sud dell’Europa, non hanno utilizzato il tempo a disposizione per differenziare le loro produzione lasciandosi alle spalle il tessile tradizionale a basso valore aggiunto sul quale non c’è competizione possibile visti i costi (salari, condizioni di lavoro e materia prima) dell’industria tessile cinese. La quale invece, negli anni scorsi, ha messo a profitto l’attesa per attrezzarsi in vista dell’apertura concordata delle frontiere, con la Cina di oggi in posizione di maggiore forza dopo il suo ingresso, forse troppo precipitoso, nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC/WTO) che le garantisce adesso utili procedure di difesa in caso di misure protezionistiche nei suoi confronti. Per convincersi dei ritardi delle nostre industrie tessili basta guardare la lista delle categorie di prodotti minacciati dalle esportazioni cinesi: maglie, pantaloni, abiti da donna, calze, t-shirt, ecc. Tutti prodotti tradizionali, fabbricati spesso con tecnologie obsolete e con un basso o nullo tasso di innovazione: roba vecchia verrebbe da dire dove i nuovi arrivati sono imbattibili e per la quale a poco serviranno misure protezionistiche, se non per prolungare un’agonia magari accompagnata dal viatico di denaro pubblico. Questa dunque l’emergenza che l’Italia, insieme con un’altra dozzina di Paesi, chiede all’Unione europea di affrontare con urgenza e con maggiore aggressività   di quanto non sia stato fatto finora. Qui perಠla situazione si fa complicata: non solo per le regole che governano il commercio internazionale, ma anche per gli interessi che l’Unione nel suo complesso, e con essa l’Italia, debbono proteggere negli scambi con la Cina. E’ bene ricordare che l’Unione è la prima potenza commerciale mondiale. Una realtà   a due facce: sicuramente una grande forza che procura ricchezza all’Unione, ma anche una potenziale debolezza per la dipendenza che implica rispetto ai Paesi importatori di prodotti e servizi europei. Paesi che è pericoloso sanzionare se non si vuole correre il rischio di contromisure protezionistiche destinate ad avvitarsi senza fine, con il risultato inoltre di degradare il clima politico tra Paesi con cui è saggio mantenere buone relazioni. E l’Italia non sfugge a questo problema, soprattutto in considerazione della necessità   di penetrare sull’immenso mercato cinese, verso il quale si è purtroppo mossa con molto ritardo, al punto che c’è voluta la recente visita di Ciampi in Cina per cercare di guadagnare un poco del tempo perduto. Il Commissario europeo al Commercio estero, quel Mandelson fautore del libero scambio e non a caso voluto a quel posto dal suo amico Tony Blair, ce lo ricorda con una cortesia tutta inglese e tuttavia non priva di chiarezza. L’Italia, fa notare Mandelson, ha investito nel 2003 «quasi 300 milioni di euro sui mercati cinesi, con un aumento dell’80% rispetto al 2002» e aggiunge che se è vero che «l’export cinese è aumentato nettamente, l’import europeo da Paesi extra-UE è diminuito». Come dire: vediamo i dati globali della bilancia commerciale e non dimentichiamo che non sono solo i Paesi UE a dover affrontare il problema. E Mandelson conclude con un’allusione nemmeno tanto oscura riferendosi ai dieci anni di tempo messi a profitto dai cinesi per prepararsi alla caduta delle barriere e sfruttati molto meno dagli italiani. Salvo da qualcuno più avveduto: «per la verità   molte imprese, e molte imprese italiane in particolare, hanno utilizzato questo tempo per delocalizzare e spostare le loro manifatture proprio in Cina! Così, mentre noi prendiamo misure per proteggere, sia pure in modo limitato, la produzione in Europa, finiamo per agire contro gli interessi di imprese europee che si sono già   spostate in Cina e stanno ora ri-esportando in Europa». Insomma, chi vuol capire capisca. E almeno capisca questo: che il mondo di domani è già   cominciato ed è molto più complicato di quello di ieri. E che la difesa di interessi particolari deve comporsi con gli interessi di tutti. Proprio tutti, anche quelli dei cinesi, che già   oggi ma più ancora domani saranno anche i nostri.

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