Nell’immediata vigilia degli anni ’50 vi fu un fiorire di forti affermazioni del diritto con la stagione delle Costituzioni dei Paesi europei: nel 1946 in Francia, nel 1947 in Italia e nel 1949 la Legge fondamentale tedesca, solo per citarne alcune. Ma è anche il periodo in cui si rimette mano alle fondamenta del diritto internazionale: è del 1948 la Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e del 1950 la Convenzione dei diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa.
Nel 2000, alla vigilia del grande allargamento dell’UE a est, venne solennemente proclamata la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, destinata a diventare giuridicamente vincolante con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona a fine 2009. Almeno due le ragioni che motivarono l’adozione di quella Carta: l’esigenza di richiamare l’Europa alla sua tradizione di culla del diritto e il rischio di vederlo minacciato con l’arrivo di nuovi Paesi membri reduci dall’inverno dello Stato di diritto sovietico. Oggi, a quindici anni di distanza, è ora di prendere coscienza che quei timori erano fondati, come ci sta ricordando l’evoluzione dello Stato di diritto in Paesi come l’Ungheria e la Polonia.
A fare da apripista su questo scivoloso versante è stata l’Ungheria di Viktor Orban, con la nuova Costituzione entrata in vigore nel 2012. Allora la Commissione europea avviò, sulla base dell’art. 258 del Trattato, un monitoraggio su alcuni capitoli ritenuti in possibile conflitto con il diritto europeo: dalla mancata indipendenza della Banca centrale europea alle innovazioni introdotte nel sistema giudiziario fino alle minacce alla libertà di stampa e di religione. Quelle preoccupazioni non erano infondate, come avrebbe ancora recentemente dimostrato una serie di misure adottate dal governo ungherese, compreso sul problema del flusso di migranti.
L’involuzione democratica ungherese non ha tardato a fare scuola in Polonia, da quando è salita al potere la destra, prima occupando la Presidenza della Repubblica e, nell’ottobre scorso, conquistando la maggioranza di governo. Per la Polonia non è passato molto tempo perché sulle misure del nuovo governo si accendessero i riflettori della Commissione europea, nel suo ruolo di “guardiana dei Trattati”.
È senza precedenti la decisione di Bruxelles del 13 gennaio di attivare una procedura di monitoraggio sul rispetto dello Stato di diritto da parte del Tribunale costituzionale polacco da cui derivano misure che pongono “una questione grave in un Paese che voglia rispettare lo Stato di diritto” e in merito al controllo diretto da parte del governo dei media pubblici. Si tratta di un intervento pesante da parte della Commissione europea che non poté ricorrere a misure simili con l’Ungheria nel 2012, mancando allora regole adottate dall’UE solo nel 2014. Si comincerà con l’avvio di un “dialogo strutturato” che, in caso di esito negativo, può giungere fino a ritirare alla Polonia il diritto di voto in seno al Consiglio.
Per la Commissione europea, alle prese con crisi gravi come quelle dei migranti, del terrorismo e del contenzioso in corso con la Gran Bretagna, l’apertura di questo nuovo fronte testimonia della gravità della situazione polacca. E dei rischi che corre lo Stato di diritto e la democrazia in Europa.