Che cosa resta di Yalta

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Era l’11 febbraio del 1945, settantacinque anni fa, quando a Yalta le tre maggiori potenze mondiali, alla vigilia della vittoria contro il nazifascismo, si incontrarono per ripartirsi le rispettive zone di influenza nel mondo: erano presenti Josip Stalin per l’Unione Sovietica, Winston Churchill per la Gran Bretagna e Franklin Delano Roosevelt per gli Stati Uniti. L’accordo che venne sottoscritto, non senza difficoltà, prevedeva un nuovo assetto per l’Europa con lo smembramento della Germania, nuove frontiere per la Polonia e per l’Italia, con l’Austria e la Jugoslavia, e la decisione di convocare, nell’aprile dello stesso anno, la Conferenza delle Nazioni Unite a San Francisco.

La storia accelerò in quel 1945: il 25 aprile la liberazione dell’Italia, l’8 maggio la resa tedesca e la fine della Seconda guerra mondiale in Europa, il 6 agosto la bomba atomica USA su Hiroshima e il 24 ottobre la nascita dell’ONU, con l’adesione di 51 nazioni, diventate oggi 193.

Molte cose sono cambiate i questi settantacinque anni: nel 1949 è stata creata l’Alleanza Atlantica (NATO); nel 1951 è nata la prima Comunità europea, allargatasi progressivamente dal 1973 fino a contare 28 Paesi, oggi 27 con l’uscita del Regno Unito; nel 1990 la Germania si è riunificata e l’anno successivo si è dissolta l’Unione Sovietica; nel 2002 è entrato in circolazione l’euro, tra il 2004 e il 2007 dieci Paesi dell’Europa centrale e orientale sono entrati nell’Unione Europea e dal 2017 a guidare gli USA c’è Donald Trump.

Non sono i soli avvenimenti che hanno segnato questi ultimi settantacinque anni, ma sono quelli che hanno contribuito a cambiare il mondo e anche le relazioni tra l’Europa e gli Stati Uniti, nel segno di un progressivo abbandono della cultura multilaterale del dopoguerra e di una crisi crescente nei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico.

Non che l’Europa sia sempre stata il riferimento centrale degli USA e non bisognava aspettare Trump per accorgersene, ma vigeva un naturale rispetto tra alleati e almeno si salvavano le forme. Non così con Trump e il suo clone dell’anglosfera, Boris Johnson, tentati di alimentare con l’UE una competizione ostile, con minacce di dazi il primo e di dumping commerciale e fiscale il secondo.

La risposta a questo atteggiamento da parte dell’Unione è stata straordinariamente morbida, anche se alcuni segnali in arrivo da Bruxelles sembrano inflettere i toni e annunciare conflitti robusti.

E’ vero per quanto riguarda le regole della fiscalità internazionale, allegramente infrante dai giganti USA, e per la prevista guerra dei dazi che, dopo la tregua tra USA e Cina, sembra trasferirsi da noi.

Non che sia il caso di convocare una nuova Conferenza di Yalta, anche perché bisognerebbe moltiplicare i posti a tavola e fare spazio a nuovi commensali che hanno alle spalle popolazioni di miliardi di persone, in grado di fare sfigurare quello che resta dei tre Paesi presenti a Yalta. A quel tavolo si siederebbe volentieri la Francia, assente allora, e che oggi con Macron ha appena confermato la disponibilità, per la sicurezza dell’Unione Europea, della capacità di dissuasione dell’arma nucleare.

Poco cambierebbe per l’Italia, assente allora e ancora più assente adesso, salvo che a rappresentarla, insieme ad altri 26 Paesi forti di mezzo miliardo di abitanti, fosse l’Unione Europea, oggi assente dal Consiglio di sicurezza dell’ONU e incapace di parlare con “una voce sola”. 

Eppure è questa la sola strada possibile per contare qualcosa nel mondo del XXI secolo: rispetto a questo obiettivo abbiamo già perso i primi venti anni. Chissà se, grazie a Trump e a Johnson, riusciremo a non sprecarne altri.    

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