Balcani in fermento

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Anche ai confini orientali dell’Unione Europea spirano venti contrari, non solo per la pandemia di coronavirus che inquieta le popolazioni, ma anche per una recente storia che non trova pace e per un futuro che si rivela incerto.

Si potrebbe iniziare dalla commemorazione, l’11 luglio scorso, dei 25 anni dal genocidio di Srebrenica, una delle ferite più profonde e ancora aperte nel cuore dei Balcani. Le commemorazioni hanno messo in evidenza il pericolo di un crescente negazionismo serbo, un veleno che si espande lentamente, dagli effetti inquietanti per il futuro della pace e per l’unione delle comunità. Il campanello d’allarme è stato tirato dalla campagna “Insieme contro il virus della negazione”, promossa da “Sense – Centro per la giustizia transizionale”, che ha coinvolto numerose organizzazioni della società civile di Croazia, Bosnia Erzegovina, Montenegro e Kosovo. 

Rivolgendo poi lo sguardo alle recenti elezioni politiche del 22 giugno in Serbia, balza agli occhi la vittoria, quasi un plebisicito, del Partito progressista serbo (SNS), che ha conquistato circa 190 seggi sui 250 del Parlamento serbo. Un partito che, malgrado il nome, non ha molto a che vedere con il progressismo e che, con il suo Presidente Alexsandar Vucic,  domina ormai incontrastato la scena politica serba. Inquieta, in questo contesto, la mancanza di un pluralismo politico, tanto che il Parlamento europeo ha definito le elezioni in Serbia una “derisione della democrazia”. Ma tant’è, la Serbia è Paese chiave per gli equilibri nei Balcani, è Paese candidato all’adesione all’Unione Europea ed è l’interlocutore inevitabile per la normalizzazione delle relazioni con il Kosovo. 

Notizie più serene giungono invece dalla piccola Macedonia del Nord, dove e malgrado le difficoltà causate dalla pandemia di coronavirus, si sono svolte elezioni legislative che hanno riconfermato la vittoria del partito socialdemocratico di Zoran Zaev. Non una vittoria eclatante, ottenuta con solo due punti di distanza dal partito conservatore, forte quest’ultimo di un discorso nazionalista e antieuropeista. Zaev dovrà tuttavia costruire una maggioranza per governare nei prossimi anni, cosciente delle sfide che attendono il suo Paese, dalla grave emergenza sanitaria alla crisi economica che ne scaturirà e peserà ulteriormente sulla popolazione. La Macedonia del Nord è infatti uno dei Paesi più poveri in Europa, con metà della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà. Eppure Skopje ha già fatto notevoli progressi per avvicinarsi all’Europa, speranzosa in un futuro migliore e garante della sua fragile democrazia. 

Ma la Macedonia del Nord è anche un Paese fortemente multietnico, nel quale l’insieme del mosaico balcanico e l’Unione Europea stessa potrebbero rispecchiarsi e prendere spunto. In proposito, vale la pena ricordare le parole di Papa Francesco, pronunciate durante la sua visita pastorale dell’ottobre scorso:  “Qui, tanto la differente appartenenza religiosa di Ortodossi, Musulmani, Cattolici, Ebrei e Protestanti, quanto la distinzione etnica tra Macedoni, Albanesi, Serbi, Croati e persone di altra origine, ha creato un mosaico in cui ogni tessera è necessaria all’originalità e alla bellezza del quadro d’insieme (…)”.

Sono parole di speranza per l’insieme dell’area dei Balcani, ancora troppo diviso e alla ricerca di una stabilità e di un dialogo difficili da negoziare. Un’area in cui l’Europa avrebbe tanto da dare e da ricevere.

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