Ancorare l’Italia all’Europa

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Al netto delle parole sopra le righe e dei numeri sparati a casaccio, molta parte di questa penosa campagna elettorale si muove sul filo tesissimo della nostra appartenenza all’Europa. Ne hanno coscienza ormai molti italiani, ne sono forse ancora più consapevoli molti nostri concittadini europei.

Negli anni ’50 l’Italia fu uno dei primi sei Paesi che crearono la Comunità   europea. Fu una scelta chiara dei moderati di allora: un nome su tutti, Alcide De Gasperi. E fu ancora in Italia, a Messina, che riprese slancio nel 1955 l’impresa comunitaria dopo il brutto scivolone francese che bloccಠsul nascere la Comunità   europea della difesa. Da allora maturಠuna progressiva evoluzione verso un’Unione più larga e più coesa. Di questa coesione, almeno parziale, la creazione dell’euro, ne è stato il sigillo ancor più politico che monetario.

Certo questi primi cinquant’anni non hanno registrato solo irreversibili progressi: rallentamenti e crisi non sono mancate. Mai perಠsi era assistito in alcuni Paesi dell’UE – e tra questi l’Italia – ad uno scollamento così pesante da far temere per la tenuta della coesione e della comune convivenza.

Per non parlare che dei Paesi fondatori, Francia e Olanda lo hanno rivelato con il No al Trattato Costituzionale, la Germania di Schroeder con la sua assenza di iniziativa a cui sta cercando di rimediare la Merkel, soltanto il Belgio e il Lussemburgo hanno tenuto saldamente il timone nella direzione dell’integrazione europea. Non certo l’Italia di questi ultimi anni, illustratasi in disinvolte piroette con gli alleati e in crescenti infrazioni alle regole comunitarie. Ne è una prova, non unica ma si spera ultima, quanto sta avvenendo in questi giorni sul rispetto del Patto di stabilità  , condizione necessaria per la permanenza a termine dell’Italia nell’euro.

Lasciamo da parte le amenità   del Presidente del Consiglio sul suo governo che avrebbe fatto modificare il Trattato di Maastricht: nella stessa occasione scambiಠla Corte europea di giustizia (ma non gliene facciamo una colpa, vista la sua allergia alle Corti, italiane o europee che siano) con un’inesistente Commissione Giustizia e più recentemente si è inventato un fantomatico Trattato di Lisbona.

Lo sanno tutti che un Trattato comunitario puಠessere modificato solo dai 25 Paesi all’unanimità  . Ma siamo comprensivi: è probabile che il riferimento fosse alla pretesa modifica del Patto di Stabilità   che fissa le soglie del deficit e del debito pubblico rispettivamente al 3% e al 60% tendenziale del Prodotto interno lordo (PIL). Il guaio è che nemmeno il Patto di Stabilità   è stato modificato nella sostanza: soltanto se ne è resa più flessibile l’applicazione per consentire a chi era in infrazione – come purtroppo l’Italia – di rientrare con scadenze precise nei parametri convenuti fin dal Trattato di Maastricht, tuttora in vigore.

Nel caso dell’Italia, la misura di flessibilità   si traduceva in due impegni: una riduzione costante e progressiva del debito pubblico (il più alto dell’UE, a parte la Grecia) e il rientro dal deficit eccessivo per ricondurlo al 3,5% entro il 2006 e riportarlo poi sotto il 3% nel 2007. A parte il miserabile trucco del rinvio del risanamento al dopo-elezioni (non sorprende: fa il paio con il rinvio di altri pesanti oneri per lo Stato, come i costi del nuovo contratto del pubblico impiego o la promessa di sopprimere l’ICI), bisogna purtroppo costatare che nemmeno questi impegni sono stati mantenuti. Il debito infatti in questi ultimi anni ha ripreso a crescere attestandosi a quota 107 (quando l’obiettivo è il 60% del PIL) e le previsioni appena rese note dal Governo danno un deficit per il 2007 del 3,8% del PIL. E sarà   così se andrà   bene e se l’indice di crescita non è – come regolarmente accaduto finora – sovrastimato. Non a caso le valutazioni del Fondo monetario internazionale già   parlano del 4%. E sempre se va bene.

Queste poche cifre dicono essenzialmente due cose. Primo: chiunque sarà   al Governo nella prossima legislatura dovrà   far quadrare i conti, altrochà© illusioni su sostanziali riduzioni del gettito fiscale complessivo. Chi le alimenta è un irresponsabile che inganna il Paese. Unica manovra consentita, un riequilibrio equo del carico fiscale, che oggi pesa prevalentemente sui redditi bassi e medi.

Secondo: quasi tutti gli indicatori ci danno ormai alla periferia estrema dell’Europa e non solo geograficamente. La parola giusta per dirlo è «deriva»: se non si inverte la rotta la barca rischia di uscire fuori dalle acque europee. Facile dirlo, molto più difficile farlo: da troppo tempo la barca ha un timoniere in tutt’altre faccende affacendato e galleggia pericolosamente esposta alle turbolenze frequenti in questa stagione del mondo.

E tuttavia è all’Europa che questa barca va saldamente ancorata per rimetterla rapidamente in sesto e permetterle di navigare in mare aperto. Il rispetto delle regole convenute e la disciplina dell’euro saranno per noi un’ancora indispensabile. Non solo per risanare la nostra economia ed esercitare il valore della solidarietà   e dando così futuro alle giovani generazioni e garantendo a tutti dignità   di cittadini. Anche, e più ancora, per essere pronti a ritornare tra i Paesi che si apprestano – come ci ha ricordato l’altro giorno da Berlino il Presidente Ciampi – a rifondare il nucleo forte dell’Unione, un’avanguardia politica attrezzata per affrontare le straordinarie sfide che attendono l’Europa. Sfide di fronte alle quali un’Italia divisa, isolata e alla deriva non potrà   che soccombere.

Franco CHITTOLINA

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