Alta tensione in Israele

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È trascorso poco più di un mese dall’insediamento del nuovo Governo israeliano, il sesto guidato da Benjamin Netanyahu nelle vesti di primo ministro, e già appaiono all’orizzonte inquietanti nubi di conflitto nei rapporti con il popolo palestinese. 

Il ritorno sulla scena politica di Netanyahu, dopo solo un anno e mezzo trascorso all’opposizione, è segnato da un Governo con la più forte coalizione di destra e di estrema destra che il Paese abbia mai avuto. Un Governo con una maggioranza di 64 seggi su 120 alla Knesset, le cui quattro componenti, oltre al Likud, contano “Sionismo religioso”,  “Ebraismo unito nella Torah” e “Shas” (partito ultraortodosso).

Il programma di Governo, in base all’accordo raggiunto tra i partiti della coalizione, fa riflettere sul futuro del Paese e, in particolare sui temi della sicurezza, della pace, della convivenza e della tenuta della democrazia. I punti essenziali di tale accordo portano infatti sull’ampliamento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, su una maggiore presenza della religione negli affari di Stato e su una riforma del sistema giudiziario che punta ad indebolire il ruolo della Corte suprema. Sono tutti punti che, in queste poche settimane di Governo, hanno già sufficientemente illustrato le intenzioni dell’esecutivo e delle sue inevitabili e conflittuali conseguenze. 

La prima mossa rivelatrice è stata quella del nuovo Ministro della Pubblica sicurezza, Itamar Ben-Gvir, di recarsi provocatoriamente, il 3 gennaio scorso, sulla spianata delle Moschee, terzo luogo santo dell’islam, nonché luogo sacro del giudaismo con il nome di “Monte del Tempio”. È uno dei luoghi più sensibili sia da un punto di vista religioso che politico, la cui gestione si basa su un accordo del 1967, sottoscritto da Israele, secondo il quale il luogo è prioritariamente accessibile ai fedeli musulmani. Questo primo gesto del Ministro della sicurezza nazionale ha tutta l’aria di un segnale di conflitto e di una rimessa in discussione di un precario status quo. Non bisogna infatti dimenticare che proprio dalla Spianata delle Moschee sono spesso partiti scontri, manifestazioni e conflitti fra israeliani e palestinesi e che nel 2000 ha acceso la miccia della seconda Intifada.

Dopo questo primo gesto del Governo, iniziano, il 26 gennaio, giorni di sangue e di violenza con il raid dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Dieci le vittime palestinesi di un’operazione definita dai militari israeliani “di antiterrorismo”, un’operazione che sta infiammando un clima da sempre in tensione, da Hamas che ha lanciato razzi su Israele all’Autorità palestinese che ha deciso di interrompere la cooperazione con Israele sulla sicurezza. 

All’indomani del raid israeliano a Jenin, un attacco ad una sinagoga a Gerusalemme est, ha provocato, per mano di un giovane palestinese, la morte di sette persone, per lo più coloni, mentre, in una spirale incessante di violenza, il giorno seguente, un ragazzino palestinese di 13 anni ha ferito gravemente padre e figlio israeliani appena fuori dalla Città Vecchia. Su tutto Israele promette risposte forti e pugno di ferro. 

Questo è il quadro che si presenta oggi ai nostri occhi e a quelli della comunità internazionale per quanto riguarda i rapporti fra Israele e palestinesi, un quadro senza speranza di pace e di evoluzione verso una soluzione di equa e rispettosa convivenza. Risuonano solo gli appelli a frenare l’escalation di violenza, dove ormai la tentazione delle armi e della lotta armata rimane sola all’ordine del giorno.

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