A Parigi per salvare il pianeta

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Parigi, vittima del terrorismo in un Paese tentato dai venti di guerra, sarà per una decina di giorni la capitale del pianeta Terra, o almeno di quello che ne resta, dopo le devastazioni causate al nostro ambiente di vita dal processo di industrializzazione esasperata nell’ultimo secolo, principalmente ad opera di un’Europa e dell’Occidente che oggi cerca di riscattarsi, non senza contraddizioni.

A Parigi sono sfilati circa centocinquanta Capi di Stato e di governo per dire il loro impegno per salvare il pianeta dal surriscaldamento climatico, ormai molto avanzato e pericolosamente vicino alla soglia di disastri irreversibili.

L’obiettivo è quello di non superare la soglia di un aumento di 2 gradi della temperatura rispetto all’era pre-industriale. Purtroppo metà circa di quel margine già ce la siamo giocata e, se non si prendono provvedimenti radicali, fra pochi anni quella soglia sarà largamente superata – sulla base degli impegni annunciati ad oggi saremo a un aumento di 2,7 gradi già nel 2030 – e indietro sarà praticamente impossibile tornare.

A Parigi si fronteggiano i tre principali Paesi inquinatori – USA, Cina e India – e un’Unione Europea che, anche grazie alla crisi, ha ridotto sensibilmente le sue emissioni di gas a effetto serra. L’UE oggi spinge perché tutti facciano uno sforzo sulla stessa strada, accompagnando le misure di riduzione delle energie di origine fossile (carbone e petrolio), con politiche di risparmio energetico e di sviluppo di energie rinnovabili pulite.

Detto così, sembrerebbe banale e puro buon senso, ma significa dimenticare i diversi livelli di sviluppo dei principali Paesi coinvolti nella lotta all’inquinamento del pianeta e i costi che dovrebbero affrontare i Paesi emergenti e quelli alle prese con processi di industrializzazione.

Cina e India, in particolare, sono nel pieno di questo processo, alimentato con energie a basso costo e ad alto coefficiente inquinante e non accettano che chi ha inquinato fino adesso – i Paesi occidentali, USA e UE in particolare – diano adesso lezioni di saggezza ecologica.

Sul piatto, i Paesi industrializzati sono disposti a mettere a disposizione risorse finanziarie per contribuire ad una transizione delle economie emergenti: si parla di un Fondo annuale di 100 miliardi di dollari, insufficienti e difficili da reperire, e che si spera di vedere ritornare sotto forma di contratti per lo sviluppo di nuove tecnologie, oggi ancora nelle mani dei Paesi industrializzati.

Per ora, l’obiettivo sullo sfondo, quello di un accordo universale, vincolante e dinamico, resta una speranza fragile e difficile da raggiungere. Difficile che lo sottoscrivano realtà così diverse tra loro, difficile che possa avere un valore giuridicamente vincolante che esigerebbe l’attivazione di sanzioni per i trasgressori e non meno difficile trovare un accordo che sia anche dinamico, in grado cioè di essere monitorato e aggiornato periodicamente a partire da quel 2020, data entro la quale l’accordo dovrà andare in vigore.

Intanto però resta in vigore il fantasma del protocollo di Kyoto, disatteso dai più, mentre prosegue la distruzione del pianeta, il solo che abbiamo e che bisognerà consegnare vivo alle generazioni che verranno, come hanno chiesto a gran voce quel milione di persone che hanno marciato in centinaia di città del mondo.

Tutto questo senza dimenticare la gravità del problema per noi già oggi, in un’Europa la cui Agenzia per l’Ambiente (AEA) ha registrato nel 2012 quasi mezzo milione di decessi prematuri, rispetto alla normale aspettativa di vita, per l’inquinamento dell’aria, con l’amara sorpresa di trovare l’Italia prima in questa tragica classifica con oltre 84 mila decessi.

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