Si è conclusa a Lima, domenica scorsa, l’ultima grande Conferenza delle Nazioni Unite sul clima che dovrebbe portare a fine 2015, a Parigi, alla firma del tanto atteso primo accordo mondiale sugli impegni per fermare il surriscaldamento del Pianeta. Un accordo vincolante fra Paesi industrializzati, storici e maggiori responsabili delle emissioni di CO2 negli ultimi 150 anni e i Paesi emergenti o in via di sviluppo, volto a sostituire il Protocollo di Kyoto a partire dal 2020 e con l’obiettivo di contenere l’aumento del riscaldamento climatico entro i 2 gradi.
Le discussioni fra i 195 Paesi partecipanti sono durate più di due settimane e solo all’ultimo momento è stato raggiunto un fragile compromesso, vago negli obiettivi e nei rispettivi impegni, privo ancora di cifre sui contributi nazionali di riduzione delle emissioni e senza una concreta risposta ai problemi di fondo che hanno sempre ostacolato un significativo progresso nei negoziati. Problemi che si riferiscono in particolare alle divergenze fra il Nord e il Sud del Pianeta, sui finanziamenti che i Paesi industrializzati dovrebbero garantire per alimentare il «Green Climate Fund» con l’obiettivo di sostenere iniziative di riduzione di gas serra nei Paesi in via di sviluppo, sull’approccio introdotto e riconosciuto nella Convenzione ONU del 1992 relativo ad «una responsailità comune, ma differenziata» che implica, al di là della definizione di regole comuni e di valutazione degli impegni e dei risultati raggiunti, il concetto di equità fra i Paesi.
Definito dal Ministro peruviano per l’ambiente «Appello di Lima per il clima», proprio per sottolineare che non si tratta ancora di un accordo, il documento adottato definisce semplicemente un quadro per i negoziati che dovranno rispondere a tutti questi quesiti entro la fine dell’anno prossimo, un lasso di tempo molto breve in vista appunto della Conferenza di Parigi. Si sono così fortemente attenuate le speranze di progressi significativi a Lima, suscitate in particolare dal recente accordo fra Cina e Stati Uniti e dall’accordo europeo del 24 ottobre scorso. Quest’ultimo prevede una riduzione obbligatoria, da parte dei 28 Stati membri, delle emissioni di gas serra del 40% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 e un incremento del 27% sia della produzione di energia da fonti rinnovabili sia dell’efficienza energetica.
Nel frattempo l’impatto dei cambiamenti climatici è sempre più visibile, con il suo carico di degrado e di sofferenze umane, a Nord come a Sud del Pianeta. Le difficoltà incontrate nei negoziati di questi anni per giungere ad un accordo dopo Kyoto riflette tuttavia anche un contesto mondiale in continuo movimento, segnato da nuovi e vecchi interessi economici, da evoluzioni geopolitiche che ridistribuiscono alleanze e comuni interessi e da nuovi approcci nelle prospettive di sviluppo.
Questo contesto esige una forte volontà politica, da parte di tutti i leader mondiali, di contribuire in modo equo a salvaguardare la salute del Pianeta e assicurargli un futuro. L’appuntamento dunque, fra un anno, a Parigi per una Conferenza e un accordo globale che potrebbero essere quelli dell’ultima chance.