L’Unione Europea in frenata sulla salvaguardia del pianeta

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Fino a qualche tempo fa l’Unione Europea era fiera di essere la prima della classe nella lotta al surriscaldamento climatico. Aveva preso sul serio l’obiettivo dell’Accordo di Parigi del 2015 di contenere l’aumento della temperatura sotto la soglia di 1,5° e aveva accelerato le sue misure per la salvaguardia del Pianeta attive già da tempo. In particolare lo aveva fatto nel corso della scorsa legislatura europea 2019-2024 con l’ambiziosa iniziativa del “Green deal”, un Patto europeo per la salvaguardia del pianeta, vincolato da scadenze e obiettivi chiari, sottoscritto da tutti i governi dell’Unione.

L’intensità dell’impegno ha tenuto nei brevi anni di calma dell’economia, nonostante i primi contraccolpi subiti dall’irruzione della pandemia da Covid 19, traducendosi in una delle principali priorità del Piano europeo di ripresa e resilienza, all’origine dei Piani nazionali UE, come nel caso del PNRR italiano che prevedeva di destinare ben il 37% dei 194 miliardi previsti per l’Italia proprio alla transizione ecologica.

Purtroppo il quadro politico ed economico è cambiato radicalmente con l’Europa vittima di due invasioni: prima quella russa dell’Ucraina nel 2022, aggravata ancora quest’anno dal quella dei dazi ad opera di Donald Trump, con gli effetti che conosciamo. 

Ne è risultata contemporaneamente una doppia frenata: una progressiva scarsità di risorse finanziarie, con continue revisioni di priorità di spesa, e un aggravamento della coesione nell’Unione con alleanze politiche ed economiche tra loro contrapposte quanto agli obiettivi climatici perseguiti. Molti Paesi UE hanno contribuito a rallentare il ritmo della transizione ecologica, tra questi Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia ma anche l’Italia, come avvenuto nell’aspro confronto del Consiglio dei ministri dell’ambiente la settimana scorsa a Bruxelles.

Ne è scaturito un compromesso che segna una ulteriore frenata per le politiche ambientali europee, con una riduzione degli obiettivi di contenimento del surriscaldamento climatico all’85% delle emissioni entro il 2040 , la decisione di posticipare di un anno alcune misure, in attesa della revisione – sollecitata in particolare dall’Italia – del regolamento che prevede nel 2035 lo stop ai motori a combustione interna.

Come se  non bastasse tutto questo “raffreddamento”, non del clima ma dell’impegno politico, sono state previste periodiche clausole di revisione, molto probabilmente al ribasso, e anche un “freno di emergenza” per modificare il meccanismo, già previsto in riduzione, per modificare l’obiettivo climatico al 2040 in caso di difficoltà per il suo raggiungimento.

Da come si stava sviluppando il confronto tra i ministri dell’ambiente a Bruxelles poteva anche andare peggio, nonostante che l’asticella da superare fosse protetta dal voto a maggioranza sul quale incombeva però la minaccia di una minoranza di blocco promossa dall’Italia con una compagnia di giro, non proprio politicamente esemplare in Europa, come quella composta da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia e, con obiettivi in parte diversi, con Romania, Grecia, Austria, Belgio e Bulgaria, schierati contro Paesi più ambiziosi, e più avanti nella transizione ecologica, come Germania, Francia, Olanda Spagna e Paesi scandinavi, schierati a sostegno della proposta della Commissione. 

Due Europe a confronto, in un’Unione costantemente frammentata, purtroppo non solo nella politica ambientale, e con l’Italia ancora una volta schierata con le retroguardie.

Con questo fragile compromesso l’Unione Europea si è presentata i giorni scorsi alla COP 30 in Brasile, la Trentesima conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, non per dare lezioni al mondo, semmai giusto per salvare la faccia.    

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