In questi tempi confusi, dove guerre di ogni tipo oscurano spesso l’attualità corrente, non ha ricevuto l’attenzione che merita il sesto Rapporto sullo Stato di diritto reso pubblico dalla Commissione europea l’8 luglio scorso. Vale invece la pena prenderlo seriamente in considerazione come contributo ad una diagnosi della precaria salute della democrazia nell’Unione Europea, una sopravvissuta isola di difesa dello Stato di diritto in un mondo dove dittature, autocrazie e poteri imperiali travolgono le regole della convivenza civile.
Lo Stato di diritto consiste nei vincoli imposti ai pubblici poteri per i rispetto dei valori della democrazia e dei diritti fondamentali, sotto il controllo di organi giurisdizionali indipendenti e imparziali. Già questa definizione sommaria contribuisce a disegnare una particolare mappa del mondo, con una maggioranza di Paesi in chiara infrazione, comprese antiche democrazie, come quella degli Stati Uniti, o più recenti come, giusto per citarne una nell’UE, quella dell’Ungheria.
Quanto basta perché la Commissione europea, “guardiana dei Trattati” e delle regole europee, accenda su questo i riflettori nell’Unione, rilevando infrazioni e proponendo interventi per rimediarvi.
Complessivamente l’ultimo Rapporto muove in due tempi: un’analisi, europea e nazionale, sullo stato di salute della democrazia rilevando progressi, ritardi e una serie di proposte puntuali ai Paesi membri per rafforzare uno Stato di diritto costantemente minacciato da arretramenti.
A livello europeo il tentativo sembra quello di rassicurare sulla tenuta globale delle regole democratiche, mentre a livello nazionale le ombre non mancano, come non mancherebbero se i riflettori si accendessero con più coraggio sulle Istituzioni europee, a partire dalla stessa Commissione e dalla sua presidente,Ursula von der Leyen, non proprio esemplare nella gestione delle sue responsabilità, come nel caso che la vede accusata davanti alla Corte di giustizia per mancata consultazione del Parlamento sulle risorse finanziarie destinate agli armamenti.
Se nel quadro del Rapporto sulle situazioni nazionali spicca, come ormai da tradizione, la maglia nera dell’Ungheria in costante infrazione alle regole elementari della democrazia, non si può dire che sia di un bianco immacolato la maglia dell’Italia. Dopo qualche pagina consolatoria su alcuni limitati progressi, intervenuti rispetti all’anno scorso, destano preoccupazione non poche falle nel tessuto democratico del Paese, la “nazione” di cui va fiera la presidente del Consiglio.
La lista delle ombre è lunga: da quelle relative al funzionamento del sistema giudiziario e al problema grave della durata dei processi alla percezione del livello di corruzione nel settore pubblico che colloca l’Italia al 19° posto nell’UE e al 52° a livello mondiale e non ha aiutato l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, mentre non si registrano progressi sulla questione del finanziamento dei partiti politici.
Non va meglio sul fronte sempre più caldo del pluralismo e libertà dei media, dove in particolare destano preoccupazione le norme sull’accesso alle informazioni giudiziarie e non si registrano progressi nella riforma delle norme sulla diffamazione.
La lista delle falle italiane si conclude provvisoriamente con il delicato capitolo delle “questioni istituzionali relative al bilanciamento dei poteri”, a cominciare dal controllo parlamentare sul progetto di riforma costituzionale relativa al premierato e proseguendo con le preoccupazioni sul ricorso frequente alla decretazione d’urgenza da parte del Governo e sulla prospettiva di una modifica della giustizia contabile e la riforma della Corte dei Conti.
Non è tutto per l’Italia, ma già basta per dare un’idea delle condizioni precarie del nostro Stato di diritto, in questo Paese che si profila oggi, con grande disinvoltura, anche “patria del rovescio”.