Per molti il 2012 doveva segnare la fine dell’euro, per qualcuno addirittura la fine del mondo.
In entrambi i casi, due previsioni finite meglio di quelle, in peggioramento, su debito, crescita e occupazione in Europa.
Quanto alla predizione Maya sulla fine del mondo, pochi quelli che ci hanno creduto; molti di più quelli che si sono agitati per un’imminente fine dell’euro: tanti l’hanno temuto, qualcuno l’ha sperato, altri hanno provato a dare qualche spallata.
A salvare l’euro hanno concorso il buon senso dei cittadini europei, la Commissione europea che ha continuato a lavorare senza troppo chiasso e, soprattutto, la Banca Centrale Europea (BCE) che ha alzato una diga dopo l’altra, fino ad approdare alla creazione del Fondo salva-Stati e a forzare l’apertura del cantiere sull’unione bancaria. In parte si è trattato di una supplenza a fronte di responsabili politici incerti sul da farsi, più preoccupati di guadagnare tempo che di consolidare la costruzione europea.
Ha traccheggiato, e continua a farlo, la Cancelliera Angela Merkel, preoccupata di non perdere il consenso dei suoi concittadini in vista delle elezioni dell’autunno prossimo; ha frenato fino ai limiti del sabotaggio David Cameron, portando la Gran Bretagna ai bordi dell’UE, tirandosi dietro Svezia e Repubblica Ceca; ha esitato il neofita François Hollande, prigioniero dell’ossessione sulla presunta sovranità della Francia e si è barcamenato come ha potuto Mariano Rajoy, angosciato di fare la fine della Grecia.
Su questa “nave dei folli”, sballottata in una tempesta economico-finanziaria senza precedenti, molti Capi di Stato e di governo hanno ceduto il timone ai “mercati” e, nel migliore dei casi, a Mario Draghi, dal novembre 2011 alla testa della BCE, diventata strumento efficace e probabilmente destinato a rafforzarsi nel tempo.
Si è distinto per senso di responsabilità e capacità di iniziativa il Presidente del Consiglio italiano Mario Monti, restando a galla in quello stagnante “triangolo delle Bermuda” composto da Germania, Francia e Gran Bretagna e cominciando a ristabilire la credibilità perduta dell’Italia.
Se in Italia le misure adottate dal governo nei suoi tredici mesi di vita hanno mostrato molti limiti, soprattutto quanto a equità e crescita, in Europa Mario Monti ha dato prova di una capacità di visione, di stampo nettamente liberale, ma con una strategia di lungo periodo: da una parte, rassicurando le Istituzioni europee sulla volontà italiana di avviare riforme in letargo da tempo e, dall’altra, riposizionando l’Italia su uno scacchiere europeo che potrebbe presto riservare sorprese.
Su entrambi i fronti il nuovo governo che uscirà dalle urne a febbraio dovrà mandare messaggi chiari: non abbandonare la linea del rigore e delle riforme, dando però priorità a sviluppo e occupazione e resistere alle tentazioni egemoniche della Germania, senza offrire troppe sponde alla Gran Bretagna, come avvenuto con Mario Monti nel corso del negoziato del “fiscal pact”.
L’occasione per chiarire le posizioni dell’Italia e, se necessario, alzare la voce si presenterà subito con la ripresa del negoziato sul nuovo “Quadro finanziario 2014-2020”.
Sarà bene che il nuovo governo non perda tempo e collochi l’Europa tra le sue priorità: sarebbe un buon viatico in vista delle elezioni europee del 2014.