Unione Europea tra Brexit e Grexit

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Come se non bastassero i conflitti armati ai confini dell’Europa e le crescenti tensioni alle sue frontiere interne, come nel caso del Brennero, adesso due minacce convergono sull’Unione Europea da nord e da sud e portano il nome di Brexit e Grexit.

Sono due brutti neologismi che sentiremo spesso pronunciare nei prossimi giorni e settimane, due mine pronte a scoppiare, in rapida successione, senza ancora sapere quale sarà la prima a esplodere.

In questi ultimi tempi gli osservatori avevano concentrato l’attenzione su Brexit, sul rischio di uscita della Gran Bretagna con il referendum popolare indetto per il prossimo 23 giugno, lasciando nell’ombra altri gravi problemi aperti da tempo e, tra questi, il difficile risanamento finanziario dei conti pubblici greci.

In questi ultimi giorni la Grecia è tornata a imporsi sulla scena europea, a meno di un anno dal fragile accordo negoziato in extremis nello scorso mese di agosto con l’Unione Europea e il Fondo monetario internazionale, un accordo sottoposto adesso a una verifica difficile.

I creditori della Grecia vogliono garanzie sul rispetto dell’accordo prima di procedere all’erogazione di nuovi aiuti, in particolare con l’adozione di azioni preventive per impedire possibili insolvenze e per valutare un eventuale alleggerimento del debito pubblico.

Per il governo greco le misure preventive previste, per un importo complessivo di 35 miliardi di euro, vanno “oltre i confini della Costituzione greca e oltre i limiti del sistema legale europeo” e si configurano come una pesante invasione nella già stremata democrazia greca, dove Tsipras è tentato dalle dimissioni e chiede un Vertice straordinario UE per affrontare la situazione al massimo livello politico, piuttosto che al tavolo tecnico dei ministri delle finanze.

Intanto cresce in Gran Bretagna e nel resto dell’Europa il confronto sulla permanenza o meno del Regno di Sua Maestà nell’Unione Europea. Al netto dei sondaggi, ancora poco attendibili in questa fase, è interessante soffermarsi sulle argomentazioni delle due parti in competizione, non senza aver prima ricordato quanto sia azzardato e sommario sottoporre a referendum una questione complessa come quella della permanenza di un Paese nell’UE e ringraziando che la nostra Costituzione abbia saggiamente escluso la possibilità di una simile opzione.

Dalla parte del “no” all’UE sono schierati gli irriducibili euroscettici populisti dell’UKIP di Nigel Farage e una parte consistente del partito conservatore di David Cameron, sotto la guida del suo avversario interno, Boris Johnson, attuale sindaco di Londra e leader con un importante seguito elettorale.

Dalla parte del “sì”, oltre al Primo ministro Cameron, forte delle discutibili deroghe ottenute nel negoziato con Bruxelles, ma indebolito dalle sue disavventure fiscali, anche il leader laburista Jeremy Corbyn, da sempre critico sull’Unione Europea ma in questo caso contrario a un divorzio dall’UE.

Alle voci dei politici inglesi, favorevoli alla permanenza della Gran Bretagna nell’UE, si sono aggiunte quelle della totalità dei Capi di Stato e governo europei e, la settimana scorsa, anche quella di Barack  Obama che non ha esitato a entrare a gamba tesa nel dibattito europeo e inglese con parole che suonavano ammonizione sui rischi di una rottura con l’Unione Europea, essa stessa messa in guardia contro la tentazione di tornare indietro, cedendo alle sirene del populismo e alle funeste divisioni del passato.

Che poi Obama difenda anche gli interessi americani prendendo nettamente posizione contro la Brexit non avviene solo nel nome di un ideale. Contano, eccome, anche gli affari, com’è il caso del Trattato internazionale per il commercio e gli investimenti (TTIP) tra UE e USA.

Da Londra gli fa eco la City, una piazza finanziaria che dalla Brexit ha tutto da perdere, come ci perderebbe la ricchezza inglese – si dice in caduta del 6% – e la qualità ambientale, forse lo stesso tanto declamato sistema sanitario, se privato di medici stranieri.

Alla fine, resta da chiedersi se e quanto ci perderebbe o guadagnerebbe l’Unione Europea dall’uscita di un Paese membro che, dal 1973 a oggi, ha aderito all’UE prevalentemente per sfruttarne il ghiotto mercato e frenarne la necessaria l’integrazione politica.

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