E’ negli statuti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) che vi siedano i rappresentanti degli Stati nazionali e non le loro aggregazioni regionali, nemmeno quelle che condividono pezzi importanti di sovranità, come nel caso dei Paesi dell’Unione Europea. Era quindi ufficialmente “normale” che l’UE non partecipasse alla recente Assemblea generale con i suoi vertici di Bruxelles, meno normale che non si sia avvertita una convergenza di voci tra chi ne rappresentava i Paesi membri, uno dei quali – soltanto la Francia – siede nel Consiglio di sicurezza, con Stati Uniti, Cina, Russia e Regno Unito.
E’ interessante in proposito raffrontare gli interventi di due Paesi importanti UE, entrambi fondatori delle prime Comunità europee, come la Francia e l’Italia e lasciare negli archivi, senza però dimenticarli, i discorsi deliranti di Trump e Netanyahu.
La Francia aveva la voce appassionata del suo presidente Emmanuel Macron, l’Italia con il suo presidente del Consiglio. Che i due non siano proprio una coppia in armonia è cosa nota: il primo, dotato di più ampi poteri della collega e alle prese con una seria crisi politica interna; la seconda, stabilmente al governo da tre anni con una maggioranza divisa in politica estera. Entrambi affascinati dal tema della sovranità: Macron, almeno nelle intenzioni, di quella europea; Meloni, nei fatti aggrappata a quella nazionale, in preda all’einaudiano spettro del “mito funesto della sovranità nazionale assoluta”.
All’Assemblea dell’ONU, Macron arrivava con il riconoscimento dello Stato palestinese, annunciato da tempo; Meloni, con un’ambigua apertura in extremis ad un riconoscimento rinviato a data da stabilire, anche per non dispiacere troppo al duo guerriero Netanyahu-Trump.
Troppo diversa la scombinata coppia franco-tedesca per convergere su un messaggio a dominante europea, come sarebbe stato opportuno nella congiuntura attuale. Normale che Macron, come nel suo stile di statista capace di visione, abbia volato alto sui problemi del mondo e sui conflitti in corso e richiamato a più riprese il ruolo dell’Europa; altrettanto scontato che Meloni abbia volato basso e nei dintorni dei suoi spazi elettorali, come chi deve evitare di farsi impallinare dai suoi alleati, tanto in Italia che altrove.
Non per questo però il presidente del Consiglio italiano era obbligato a muoversi rasoterra, salvo parole scontate, e a proposito di Israele gravemente tardive, sulla congiuntura mondiale. Né era opportuno che, in una sede come l’Assemblea generale dell’ONU, si esprimesse come una “provinciale”, finalmente ammessa ai tavoli dei “grandi”, spendendo parole pesantemente critiche sull’Unione Europea, di cui si considera orgogliosa protagonista, e sul malessere – soprattutto suo – nei confronti del potere giudiziario della sua Nazione di cui pure va fiera.
Vale la pena in proposito sforzarsi riprodurre integralmente qualche passaggio del suo discorso all’ONU della settimana scorsa. Come sulle “convenzioni che regolano la migrazione e l’asilo” oggi da rivedere per “tutelare i diritti umani fondamentali, insieme però alla sacrosanta prerogativa di ogni Nazione di proteggere i propri cittadini e i propri confini, esercitare la propria sovranità…”, impedendo che “convenzioni… non più attuali.. vengano interpretate in modo ideologico e unidirezionale da magistrature politicizzate”.
O, ancora, la notizia data in Assemblea, con riferimento alla transizione ecologica nell’UE: “Le cose potranno andare molto peggio, se non fermeremo la creazione a tavolino di modelli di produzione insostenibili, come i “piani verdi” che in Europa – e nell’intero Occidente – stanno portando alla deindustrializzazione molto prima che alla decarbonizzazione”. E perché il quadro fosse chiaro ha continuato: “L’ecologismo insostenibile ha quasi distrutto il settore dell’automobile in Europa, creato problemi negli Stati Uniti…”. Parole che avrebbero potuto scrivere nei dintorni della Casa bianca, certamente gradite all’amico Donald.
Così parlò a New York Giorgia, amica anche di Ursula von der Leyen, molto meno dell’Unione Europea e dell’Italia che la fondò, anche per difendersi allora dalle forze politiche dalle quali il presidente del Consiglio proviene.