
E’ dallo scorso novembre che gli studenti e gran parte della popolazione della Serbia hanno dato il via a ingenti manifestazioni in tutto il Paese per denunciare la corruzione che si annida pericolosamente nelle pieghe di un Governo autoritario, guidato dal 2017 dal Presidente Vucic e dal suo Partito, il Partito progressista serbo. Sono manifestazioni che si estendono sempre più nel Paese e la cui portata non si era più vista dai tempi delle manifestazioni contro Milosevic nel 2000.
La scintilla che ha infiammato progressivamente le proteste dei cittadini serbi è il crollo, oltre quattro mesi fa, all’indomani di lavori di ristrutturazione, di una tettoia di cemento nella stazione ferroviaria di Novi Sad, nel Nord della Serbia, causando la morte di quindici persone. Era l’ultima dimostrazione di una corruzione senza scrupoli che serpeggiava sempre più nel Paese e di fronte alla quale gli studenti serbi e la popolazione nel suo insieme hanno risposto con pacifiche ma determinate e tenaci proteste. Un vero movimento nazionale che, malgrado l’atteggiamento minaccioso del Governo non ha intenzione di fermarsi, come dimostrato nella manifestazione del 15 marzo scorso.
La richiesta di giustizia, di democrazia, di rispetto dello stato di diritto, della libertà di espressione e del rispetto dei diritti fondamentali, attraversa tutto il movimento di protesta serbo e riporta inevitabilmente sotto i riflettori il fatto che la Serbia, con altri cinque Paesi dei Balcani (Albania, Montenegro, Macedonia del Nord, Bosnia Erzegovina e Kosovo), è Paese candidato all’adesione all’Unione Europea. Al riguardo, se da una parte il movimento, a differenza delle manifestazioni in Georgia o in Moldavia, non ha portato in piazza entusiasmo o particolare interesse per l’Unione, dall’altra la stessa Unione non ha dimostrato l’attenzione necessaria a tali proteste e al loro peso nel negoziato in corso. Senza dimenticare che il Presidente Vucic non ha mai nascosto la sua vicinanza alla Russia e al Presidente Putin.
I Paesi dei Balcani hanno iniziato il loro percorso di avvicinamento all’Unione Europea all’indomani delle guerre degli anni Novanta, guerre che hanno lasciato profonde ferite, mai completamente rimarginate. I rapporti e i negoziati con l’Unione Europea hanno puntato in primo luogo ad un sostegno all’ integrazione e alla cooperazione politica ed economica regionale, strategia volta in particolare alla riconciliazione fra i Paesi per poter poi concentrarsi, a partire dal 2003, sui percorsi di integrazione nel sistema politico e normativo dell’Unione.
Un lungo percorso cosparso di difficoltà, di battute d’arresto politiche da parte dell’Unione, ma anche di incertezze da parte dei singoli Paesi sulla strada delle riforme necessarie all’adesione, riforme su stato di diritto, giustizia e diritti fondamentali in particolare.
Resta il fatto che l’adesione dei Paesi dei Balcani è senza dubbio una delle sfide maggiori che attendono l’Unione nel prossimo futuro, soprattutto in questo nuovo contesto geopolitico in rapida ed insicura trasformazione e in cui l’Unione rischia la marginalità sullo scacchiere internazionale. E’ soprattutto di particolare urgenza ed importanza la radicale riforma delle regole di governance delle Istituzioni europee, con il rischio, a più lunga scadenza dell’ingovernabilità di un’Unione a 33 Paesi, nell’attesa di altri Paesi candidati come Ucraina e Moldavia.