Per non dimenticare la Palestina

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Stiamo vivendo tempi molto duri, non solo per la pandemia che sta sconvolgendo i nostri modi di vivere o per la concretezza dei cambiamenti climatici che sferza insistentemente su tutto il Pianeta, ma anche per l’attenzione sempre più distante che i riflettori mediatici dedicano all’attualità e ad altri problemi del mondo rimasti in sospeso.

E’ il caso del conflitto israelo-palestinese, tornato brevemente alla nostra memoria con l’incontro tra il Presidente dell’Aurtorità palestinese Abu Mazen e il nostro Persidente del Consiglio Draghi e il Presidente della Repubblica Mattarella il 3 novembre, seguito dall’incontro con  Papa Francesco il giorno seguente in Vaticano. Incontri brevi, ma sufficienti per  rivolgere lo sguardo al cuore del Medio Oriente e alla lunga storia di quella terra ormai senza pace da più di settant’anni.

Se da una parte sia i Presidenti Mattarella e Draghi che il Papa hanno auspicato la ripresa del dialogo e sottolineato che una “soluzione a due Stati, giusta, sostenibile e negoziata tra le parti, resta la chiave per una durevole stabilizzazione regionale”,  dall’altra Abu Mazen e Papa Francesco hanno anche evocato  la necessità di un accordo su uno statuto speciale per Gerusalemme, internazionalmente garantito, che ne preservi “l’identità e il valore universale di Città santa per tutte e tre le religioni abramitiche”. 

Due temi chiave per un dialogo israelo-palestinese molto distante, fermo da anni, sul quale potrebbero aprirsi fragilissimi spiragli con i cambiamenti politici in corso, non solo in Israele ma nell’insieme della regione dopo la firma degli Accordi di Abramo. Sul versante interno, dopo gli anni di totale chiusura di Netanyahu, il nuovo Governo di Naftali Bennett sembra voler inviare messaggi di distensione e di riduzione delle tensioni quotidiane, sociali ed economiche, particolarmente gravi in questa stagione di pandemia. Messaggi che tuttavia non prendono in considerazione l’avvio di un qualsiasi processo di pace ed entrano in contraddizione con la recente designazione di sei organizzazioni della società civile palestinese, attive da molti anni nella difesa dei diritti umani, come “organizzazioni terroristiche”. Una decisione che ha sollevato  forti preoccupazioni nella comunità internazionale per le ricadute e le tensioni che genera.

Non solo, ma resta soprattutto il fatto che il nodo politico centrale, sul quale poggerà un eventuale avvio di un processo di pace, è l’occupazione da parte dei coloni israeliani dei Territori della Cisgiordania. È dello scorso ottobre infatti l’ultima decisione di Israele di riprendere la costruzione di nuovi insediamenti, considerati illegali ai sensi del diritto internazionale. Una politica che non si discosta da quella dei precedenti Governi, che sbarra la strada al progetto di due Stati e soffia costantemente sul fuoco delle violenze. 

Da parte palestinese, la situazione politica non aiuta a creare quei presupposti di unità e condivisione necessari ad un dialogo con Israele: Hamas al potere a Gaza e l’Autorità nazionale Palestinese (ANP) in Cisgiordania non riescono infatti a trovare un accordo di pace dal 2007, indebolendo in tal modo la posizione, già di per sé drammatica, dell’insieme dei Palestinesi. 

Nel frattempo l’Unione Europea e gli Stati Uniti di Biden guardano con timidezza all’evolvere della situazione, con la speranza che non riesploda una nuova guerra come quella che ha tenuto la comunità internazionale con il fiato sospeso solo cinque mesi fa e dove purtroppo i segnali di un futuro di pace sono tuttora difficili da individuare.

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